Tra Parigi e Berlino riemerge l'Europa come modello politico
Forse è solo un'illusione, lontano dal party di Mar-a-Lago, dalla swinging democracy, dai Festival delle idee che lasciano nell'aria solo odori acidi di birra. Ma vale la pena farci un pensierino
Il patriottismo europeo è una formula effimera e un po’ stupida, infatti l’ho di recente rilanciata io stesso, che pratico effimero e stupidità come un vizio pubblico da tanti anni. Ma sono davvero stregato dalla riemersione di una dimensione politica seria, rilevante, sulla linea che collega Parigi e Berlino. Ci sarà tempo per decretare che anche Emmanuel Macron ha fallito il suo proposito, e che Angela Merkel è impegnata nel bolso tentativo di riprodurre sé stessa al quadrato in un ulteriore mandato. Ci sarà tempo per stabilire che il nucleo dell’euro, l’unica presa strategica sul presente e sul futuro emersa all’apparire del secolo del discontento, e speriamo sia un secolo breve, brevissimo, è un nucleo di latta, che non regge alle verifiche della finanza, dell’economia e della storia dei popoli, come in molti avevano sostenuto dall’inizio. E ci sarà tempo, ci potete giurare, per declassare a scommessa perduta la reviviscenza della nazione-stato centrata sull’Île-de-France, dove dormono decine di re, di philosophes e di tagliateste egualitari, più l’ultimo imperatore, e derubricare a esperimento romantico e pulsione libidinale espansionista il Reich tedesco a trazione brandeburghese, prussiana. Intanto però il sonno della ragione a Washington e a Londra, isole nella corrente, genera il mostro di una nuova Europa continentale intesa come soggetto della politica mondiale e modello di amministrazione e di governo.
Ci sarà tempo. Intanto a Parigi governa un figlio eletto della noblesse d’Etat, un alto funzionario anagraficamente giovane (n. 1977), uno che ha studiato filosofia e economia, che pranza nella Brasserie giusta, che ha un bel sorriso e sa stringere la mano dell’Impostore con energia, uno che ha messo nell’angolo secondo le regole, e forzando le consuetudini, gaullisti e socialisti penosamente invecchiati e tragicamente sputtanati dopo i due mandati di Sarkozy il burino e di Hollande il presidente troppo normale. Non promette miracoli, è un realista ambizioso e immaginativo, ha in testa l’Europa, un modello di convergenza o la semplicità che è difficile a farsi, punta sullo sviluppo e accetta le aperture di un mondo senza grandi illusioni, fondato sui diritti individuali e su miti collettivi temperati, moderati, passibili di incremento e di riforma senza drammi. Se si pensi al suo Eliseo, paragonato alla trucibalda esperienza della nuova Casa Bianca e al casino senza attenuanti di 10 Downing Street e di Westminster, pare di stare a una lezione inaugurale del Collège de France, l’unica grande scuola che, fondata nel Cinquecento da Francesco I e da Guillaume Budé, non fu mai occupata e sventrata dalla presa tumultuosa della parola, nemmeno durante i famosi avvenimenti del maggio 1968.
La figlia del pastore venuta dall’est, la cara Angela, è in fase di trasfigurazione. Da arcigna o gretta custode della cassaforte della produttività e delle esportazioni esagerate, la Cancelliera tende a evolversi in progetto politico e punta, a quanto sembra, a sollevare con la leva dell’economia dominante qualcosa di più importante e significativo del solo benessere tedesco. Anche lì, Unter den Linden, l’impressione è quella di un’orchestra ben diretta, le tube wagneriane non sono soverchianti, i soprano drammatici fanno il loro mestiere, e fluisce un certo bel sinfonismo che affascinò il secolo lungo, l’Ottocento delle armonie e delle dissonanze romantiche o decadenti. Berlino, come Parigi, promette elaborazione culturale, qualcosa di infinitamente lontano dal party brulicante in corso sui campi da golf di Mar-a-Lago e dalla swinging democracy sotto tutela presumibile di un governo di Tory sconfitti e di unionisti nord irlandesi. Anche qui l’impressione è quella di una filologia della politica degna di un corso lungo e ferrato alla Humboldt Universität, non lontano dalla incantata isola dei musei. Altrove i Festival delle idee lasciano nell’aria, alla T. S. Eliot, solo “odori acidi di birra” e prolusioni di Roberto Saviano, qui e a Parigi si cerca una sintesi tra le cattedre del compianto Michel Foucault e Jürgen Habermas, e la differenza si può cogliere a occhio nudo.
Forse è solo un’illusione. Parigi e Berlino sono troppo vecchie, non godono dei vantaggi del Kitsch di Miami e della politica bizzarra e dissolutiva di Lady May, stampa e televisione e radio in francese e in tedesco sono strumenti pesanti nel chattamento universale, la fatale combinazione postmoderna di alto e basso non rende alla vita civile quel giusto tasso di frivolezza al quale aspiriamo tutti, intesi come massa, nel senso di Agostino d’Ippona, massa damnationis di una terra insalvabile. Illusione, ma vale la pena farci un pensierino.