Sessions sotto stress
Il procuratore generale è incalzato dagli avversari e in tensione con Trump. Le ricadute del caso Comey
New York. Jeff Sessions, finito sotto torchio davanti alla commissione Intelligence del Senato, è bersagliato dall’interno e dall’esterno. Gli avversari lo aggrediscono per arrivare al trofeo più importante, Donald Trump, e allo stesso tempo il presidente è insoddisfatto della condotta del procuratore generale, si lamenta di lui con il suo inner circle, tace quando dovrebbe difenderlo, twitta quando dovrebbe lasciare correre. Nell’universo di Trump tutto si misura in termini di fedeltà e devozione, e da qualche tempo a questa parte il rapporto di fiducia dà segni di deterioramento. La testimonianza di James Comey al Senato della settimana scorsa non ha aiutato.
A conti fatti, Sessions è uno di quelli che esce più ammaccato dalla deposizione dell’ex direttore dell’Fbi licenziato da Trump. La scena in cui Trump gli chiede di uscire dallo Studio Ovale per parlare a quattr’occhi con Comey dell’inchiesta sull’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, Michael Flynn, è la testimonianza plastica di un rapporto di sfiducia in stato avanzato. Un paio di settimane fa il dipartimento di Giustizia è finito al centro di una tweetstorm trumpiana, circostanza temibile nelle acque incostanti di Washington, per via del travel ban “annacquato” e “politicamente corretto” approvato dal procuratore in luogo della versione dura e pura voluta dal presidente. Non è certo la prima volta che la Casa Bianca smentisce il dipartimento di Giustizia. Con un’intervista televisiva il presidente ha fatto chiaramente capire che la giustificazione, formalmente solida, architettata dai legali per il licenziamento di Comey era un pretesto. In quell’affare Sessions non era direttamente coinvolto, essendosi ricusato a marzo dall’inchiesta sulla Russia per via del suo coinvolgimento con la campagna elettorale di Trump. Ma proprio la scelta di chiamarsi fuori dal caso ora è sotto esame. Comey ha fatto riferimento a “fatti secretati” che “avrebbero reso problematico il suo coinvolgimento in una indagine legata alla Russia” e contemporaneamente è circolata la voce di un terzo incontro fra Sessions e l’ambasciatore russo, Sergey Kislyak.
Quali siano questi “fatti” che avrebbero reso problematica la posizione di Sessions, fatti a tal punto certi da spingere il direttore dell’Fbi a rivolgersi al suo secondo anche prima della ricusazione, non è chiaro. Sessions ha avuto due incontri con l’ambasciatore russo, e c’è una campagna al Congresso guidata dal senatore Al Franken per dimostrare che il procuratore ha mentito sotto giuramento a proposito di queste circostanze. Sessions continua a sostenere che, nel contesto della deposizione, le risposte erano corrette.
Quel che è chiaro, al momento, è che la scelta di restare fuori dall’inchiesta russa ha fatto imbestialire Trump. Il presidente ciclicamente deplora la decisione davanti ad altri consiglieri, attribuendole un valore fondamentale. Nella mente di Trump, è stata quella circostanza che ha innescato la reazione a catena che ha portato al caso Comey e alla nomina di un procuratore speciale per l’indagine sulla Russia.
I conflitti fra il presidente e il procuratore generale non sono un fatto inedito nella politica americana. Bill Clinton s’è imbufalito con Janet Reno quando ha autorizzato le indagini su di lui e su altri membri dell’Amministrazione. Da questo punto di vista, Obama è stato sagace nell’affidare la Giustizia a uno come Eric Holder, uomo dalle credenziali impeccabili e amico intimo del presidente. Trump credeva che il fedelissimo Sessions, gratificato con un ruolo di primo piano, sarebbe stato il suo scudo contro ogni avversità, ma quando le avversità sono arrivate il procuratore ha giocato la sua partita in modo scaltro, dimostrando che la sua fedeltà è vasta, ma non incondizionata.
Il rapporto fra Sessions e Trump è nato molto prima della campagna elettorale. Il senatore ha afferrato il suo potenziale politico quando, nel 2005, l’ha invitato a deporre sul progetto di ristrutturazione del Palazzo di vetro. Il piano costava 1,2 miliardi di dollari, ma l’artista del deal diceva che avrebbe potuto realizzarlo con 500 milioni. Sessions è rimasto così impressionato dalla testimonianza che lo ha invitato a mangiare nel suo ufficio, assieme a Melania. Il sodalizio è stato sancito davanti a un panino di Subway. Sessions è stato il primo senatore a dare l’endorsement a Trump, snodo fondamentale per la credibilità della sua candidatura, e il più tosto dei suoi consiglieri, Stephen Miller, è stato assunto da Trump nelle prime fasi della campagna, riuscendo a sopravvivere a rimpasti e drammi interni. Tutto questo ha cementato un rapporto di fiducia che ora sta attraversando una fase di revisione.