London fire
Il palazzo incendiato a Londra e la memoria, tra fornelli accesi, amorazzi e una pisciata di donna
Un cortocircuito o un fornello acceso nottetempo (dall’alba al tramonto il Ramadan non consente cibo). Non è accertata la causa dell’incendio che a Londra ha distrutto un edificio di 24 piani, almeno dodici i morti e una settantina i feriti. A North Kensington, quartiere in via di gentrificazione non lontano da Notting Hill. Nei 120 appartamenti vivevano dalle 400 alle 600 persone; il Guardian racconta madri con sei figli, ben oltre la media della singletudine londinese.
Fu un fornaio – non uno qualunque, il fornitore di re Carlo II – a far divampare il grande incendio di Londra del 1666 (ce n’era stato uno nel 1212, la città sarà di nuovo in fiamme sotto i bombardamenti nel 1940). Non aveva spento bene il forno dei dolcetti, nella bottega di Pudding Lane. Poco lontano si trova ora il monumento all’incendio progettato dall’architetto Christopher Wren. Per grazia ricevuta: toccò a lui la ricostruzione, dopo che quattro quinti della Londra di inizio Seicento erano in fumo.
Racconta tutto quasi in diretta Samuel Pepys, nel suo diario (dieci anni a partire dal 1659, finché gli si annebbiò la vista). Una cameriera annuncia l’incendio, il padrone in veste da camera guarda le fiamme e non si preoccupa. Lo farà il mattino dopo, quando l’incendio avanza verso il London Bridge e si contano trecento case bruciate. Si avvicina per un sopralluogo, nota i poveracci che salvano le masserizie sui barconi, e i piccioni che non vogliono lasciare i nidi (non era animalista, disprezzava i miserabili).
Da funzionario dell’Ammiragliato, quindi si precipita dal sovrano per informarlo e suggerire il rimedio: creare una linea frangifuoco abbattendo le case (moltissime vuote, c’era appena stata la peste). Risposta: “Vada dal sindaco”. Pepys non lo scrive, era un gran pettegolo ma non poteva essere dappertutto, ma il sindaco aveva già detto la sua: “Una pisciata di donna basterà per estinguerlo”. Tutto vero e documentato, battuta da sindaca grillina compresa. Oltre mezzo secolo dopo, Jonathan Swift racconta che Gulliver spegne l’incendio al palazzo della regina di Lilliput con una pisciata colossale (aveva parecchio bevuto da minuscole damigiane) e viene cacciato per l’orribile offesa.
A Londra le preziose damigiane venivano seppellite per metterle in salvo, assieme al parmigiano. Non è la traduttrice Milli Dandolo a prendersi delle libertà: l’originale diceva “Parmezan cheese” (la ristampa da Castelvecchi). La gente arrivava da fuori per vedere il disastro, qualcuno cominciò a mettere in giro la voce che erano stati i francesi ad appiccare l’incendio. Pepys mette in salvo tutto l’oro che ha – 2.350 sterline quando con 20 si pagava per un anno una dama di compagnia. Continua a pranzare in società e a coltivare amorazzi (annotati mischiando le lingue, nel caso il diario fosse caduto nelle mani della consorte: “Je tenais in mind de ferais con her”).
“Per il grande incendio di Londra!” dice Sam quando va all’attacco con la sua manichetta (nella serie animata – gallese prima e inglese poi – “Sam il pompiere”). Le immagini della torre in fiamme ricordano i film sui casermoni britannici. Con i mostri come “Attack the Block” di Joe Cornish o con i ricchi come “High-Rise”, diretto da Ben Wheatley e tratto dal “Il condominio” di J. G. Ballard. Un condominio per ricchi, protetto dalla sbarra, dove scoppia – per futili motivi – una faida tra inquilini. Basta poco perché tutti siano armati l’un contro l’altro, mentre gli spazi comuni si intasano di spazzatura. Abbondava anche alla Grenfell Tower, e certo non funziona come barriera frangifuoco.