L'impostore Trump e il suo giudice (non boia)
Speriamo bastino due anni, come al Watergate. Ma qui le indagini sul potere sono cosa seria, non lotta politica. E i leaks non sono gogna. Può darsi che Donald sia un bravo ragazzo, può darsi che Putin c’entri. Ma è la democrazia
Speriamo che non ci vogliano otto anni, contro i due del Watergate, per levarsi di torno l’impostore e la sua banda. Negli Stati Uniti non ci sono Davigo e Woodcock, le indagini sul potere sono una cosa seria, difficile politicizzarle, e i mezzi di difesa per chiunque sono certi, scanditi da strumenti di impugnazione, appelli alle corti più alte, fino alla Suprema, e rigorosi i bilanciamenti nel complesso sistema giudiziario, fatto di indipendenza e di delega esecutiva su due piani diversi. Il “case” contro Trump, o richiesta di rinvio a giudizio, non è affatto pronto. Il bambino viziato si lamenta della caccia alle streghe, ma qui siamo solo ai preliminari ordinari di un accertamento voluto dal giudice indipendente nominato da un nominato di Trump, il vice dell’Attorney general Jeff Sessions, che si è dovuto autosollevare dal potere ispettivo in materia di Russia connection essendo personalmente coinvolto nell’affaire. Le cose si fanno con gradualità, certezza della legge, e stile di fronte all’opinione pubblica. Perché non vige la considerazione della giustizia amministrata come variante della lotta politica, nonostante le critiche all’attivismo giudiziario nella vita civile, non c’è alcuna parentela o parallelismo con quanto abbiamo conosciuto in trent’anni di banale persecuzione contro Silvio Berlusconi. È il contrario: il popolo americano ha fiducia nei giudici, negli investigatori, nella polizia giudiziaria, e considera i funzionari e gli attori a vario titolo del sistema come una garanzia, un vero contropotere decisivo per dare il segno della serietà e della responsabilità a una democrazia che si organizza sulla sovranità del voto, ma non lascia all’esecutivo il potere di decidere di sé stesso nei casi di comportamento dubbio.
Bisogna aggiungere che i leaks sono cosa diversa dalla pubblicazione a tradimento di derrate di intercettazioni vendute sul mercato della gogna politica, sia quelle inerenti le inchieste sia quelle strettamente private. I leaks in genere in America sono notizie, non fakes, non ricostruzioni arbitrarie, non costruzioni politiche orientate mediaticamente, sono notizie verificabili, fredde, notizie di due righe, nomi cognomi e fatti, memos elaborati e passati alle autorità competenti, atti di amministrazione dell’indagine il cui contenuto arriva come semplice informazione al pubblico, per esempio la convocazione dei capi dello spionaggio e controspionaggio da parte del giudice indipendente per fare accertamenti sulla cabbala pro russa della campagna di Trump, del suo transition team una volta eletto, e del suo personale comportamento nella vicenda incredibile del licenziamento di James Comey, il capo dell’Fbi che aveva di fronte a sé ancora cinque anni di mandato, con due diverse motivazioni in conflitto fra loro illustrate in modo narcisista e dovizioso dal presidente stesso in vari tuìt e in una intervista alla Nbc. Il sospetto, e vorrei vedere, è che ci sia stato un tentativo di obstruction of justice, il peggio che possa capitare a un potere esecutivo che abusa di sé stesso.
Può essere che Michael Flynn fosse un bravo ragazzo, un patriota, nonostante il suo lavoro retribuito per i turchi e i suoi contatti impropri e inappropriati con i russi, contatti di cui Trump era a conoscenza quando lo nominò consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, cose che Flynn ha tenuto nascoste anche al vicepresidente Pence. Può darsi che il genero in chief Jared Kushner volesse soltanto stabilire un canale diplomatico utile, e riservato, e che abbia operato per questo e basta, sebbene tra i suoi contatti ci sia uno strano banchiere russo che non dovrebbe avere niente a che vedere con una diplomazia ufficiosa. Può darsi che Trump abbia chiesto di essere lasciato solo con Comey esclusivamente per dirgli in tutta tranquillità che sperava, sì “I hope”, che l’indagine su Flynn fosse lasciata cadere. Può darsi.
Ma può anche darsi che la Russia di Putin abbia avuto aperte le porte giuste per interferire nella campagna americana, quanto oggi sembra un fatto accertato, lungo canali finanziari e di hackeraggio, e che quel gradasso e faccendiere di Paul Manafort, già capo della campagna nei primi mesi, fosse soltanto il primo degli intermediari. E può darsi che in un gioco di ricatti oggettivi, le cose che si sanno e che si mettono in storage per autodifesa, l’impostore si sia sentito autorizzato o obbligato, dopo aver licenziato Flynn per motivi noti e non commendevoli, a forzare, dall’alto del senso di impunità tipico di tutti i bambini, la mano dell’investigatore, uno che il Potus poteva anche licenziare e dunque doveva stare a sentire quelle che erano le “speranze” del principale. Ma nel sistema americano questo non si usa, il tentativo di opporsi alla giustizia in forme anomale e intimidatorie è considerato il peggiore possibile comportamento penale da parte del detentore di alcun potere. In America non c’è la guerra tra politica e giudici, c’è la politica e ci sono i giudici e i poliziotti difesi ciascuno dalle sue guarentigie, e tutti chiamati a collaborare al funzionamento del metodo dei pesi e contrappesi, dei controlli incrociati. E stanno molto attenti alla fattibilità del “case” e dei processi: se una cameriera in un hotel denuncia un uomo di potere per essere stata sessualmente abusata, non basta rintracciare lo sperma con il dna, non basta un comportamento convergente di testimoni del fatto, al minimo dubbio sulle condizioni dell’accusa, dopo una esibizione ostentatoria di forza e di rigore, la giustizia lascia libero colui che non può essere verosimilmente imputato sulla base di indizi concordanti che non arrivano al valore di prova.
Vedremo. Basta aspettare. Ciascuno con i suoi giudizi e pregiudizi a proposito della persona in ballo, il confidence man o con-man, l’impostore o truffatore, oppure il redentore dei forgotten men. Basta che non si dicano sciocchezze evocando la caccia alle streghe o l’intromissione dei giudici, nominati come giudici indipendenti proprio dal governo federale e che rispondono a lui, ma sotto il controllo della stampa e dell’opinione pubblica. Trump può legalmente licenziare, dopo Comey, anche Robert Mueller III, il procuratore che gli si avvicina con mezzi di indagine e di prova per lui molto pericolosi, ma ne pagherebbe il prezzo morale e politico. È già notoriamente successo, con Richard Nixon.