Trump ammette di essere sotto inchiesta, contrattacca e apre un nuovo problema politico
Il presidente se la prende con Rosenstein, il numero due del dipartimento di Giustizia responsabile dell’inchiesta sui legami con la Russia. Una mossa che potrebbe rivelarsi letale
New York. Con un tweet – e come sennò? – Donald Trump ha ammesso di essere indagato dall’Fbi, informazione che si sapeva già grazie ai funzionari anonimi che l’hanno passata al Washington Post. “Sono indagato per aver licenziato il direttore dell’Fbi dall’uomo che mi ha detto di licenziare il direttore dell’Fbi! Caccia alle streghe”, ha scritto il presidente americano. L’uomo a cui Trump fa riferimento è Rod Rosenstein, il numero due del dipartimento di giustizia che però è responsabile dell’inchiesta sui legami con la Russia, dal momento che il procuratore generale, Jeff Sessions, ha deciso di ricusarsi a marzo (l’intera storia di quella ricusazione dev’essere ancora scritta).
Il paradosso supremo della circostanza è che quando Comey era in carica, il presidente continuava ossessivamente a chiedergli che la notizia che non era sotto inchiesta fosse resa pubblica. Per tre volte Comey gli ha confermato in privato che non era indagato, e con la solita logica surreale Trump ha comunicato la cosa in un passaggio non richiesto della lettera di licenziamento del direttore dell’Fbi. Ora si trova sotto inchiesta, con l’ipotesi di ostruzione alla giustizia, per la condotta tenuta quando tentava disperatamente di mostrare che non era sotto inchiesta.
Trump scarica su Rosenstein la colpa di un impianto accusatorio che ha portato alla nomina di un procuratore speciale, Robert Mueller, che con un formidabile team di legali sta sollevando ogni tappeto della Casa Bianca. Il suo mandato è vasto. Rosenstein gli ha dato il potere di indagare sulle connessioni con il Cremlino e su “tutto ciò che è direttamente legato a quel caso”. Dall’incessante flusso di leak sappiamo che sotto inchiesta è finito anche il “segretario di qualunque cosa”, Jared Kushner, e che il vicepresidente, Mike Pence, ha deciso di assumere un avvocato. Nel tweet di Trump c’è un notevole problema logico: il presidente sostiene che Rosenstein gli “ha detto di licenziare” Comey, quando in realtà è avvenuto il contrario. E’ stata la Casa Bianca a decidere il licenziamento (che, per inciso, può avvenire per decreto presidenziale e non deve essere motivato) ma voleva una giustificazione del dipartimento di giustizia per legittimare la manovra. Rosenstein, che a quel punto era nel suo ruolo da quattordici giorni, si è trovato a firmare un memorandum in cui si spiegava che Comey veniva licenziato per il modo in cui aveva gestito il caso sulle email di Hillary Clinton. Lo stesso Trump ha incautamente smentito questa versione, lasciando intendere in un’intervista che il direttore era in realtà stato scaricato per i rapporti con la Russia. Il dipartimento di giustizia non l’ha presa bene, per usare un eufemismo.
In una deposizione al Senato oscurata da altre priorità, Rosenstein ha detto che, in assenza di una giusta causa, non licenzierebbe Mueller nemmeno se glielo chiedesse il presidente: “Se non ci fosse una giusta causa, non m’importerebbe quello che dicono gli altri”. La Casa Bianca non l’ha presa bene, altro eufemismo. Così la guerra è arrivata in superficie. Giovedì sera, quando l’ennesima fonte anonima allargava l’inchiesta anche a Kushner, Rosenstein ha pubblicato una dichiarazione assai irrituale nel tono e nei contenuti: “Gli americani devono esercitare prudenza prima di accettare come veri fatti attribuiti ad anonimi ‘funzionari’, specialmente quando non possono identificare il paese – per non dire la branca o l’agenzia governativa – al quale queste presunte fonti sono affiliate. Gli americani devono essere scettici sulle accuse anonime. Il dipartimento di giustizia tiene la tradizionale linea di non confermare né smentire queste accuse”.
E’ talmente irrituale che sembra scritta dallo staff di Trump. In ogni caso, una dichiarazione del genere è in linea con i desideri della Casa Bianca, che sta facendo di tutto per screditare le accuse, presentando l’operazione alimentata a suon di leak come un complotto politico per via giudiziaria. Una caccia alle streghe, appunto. Attaccando Rosenstein, Trump ha aperto una questione politica che è assai più vasta di quella giuridica, che frettolosamente viene associata alla parola magica, “impeachment” (che però è, appunto, un procedimento politico). Gli elementi noti finora dicono che il presidente potrebbe sopravvivere in qualche modo alle accuse che gli sono mosse, ma lo scenario cambierebbe completamente se, sull’onda della frustrazione, Trump decidesse di licenziare uno fra Rosenstein, Mueller o Sessions, quest’ultimo passato da alleato d’acciaio a consigliere da guardare con sospetto. In quel caso l’ostruzione alla giustizia sarebbe palese (almeno politicamente), e diventerebbe impossibile per lui continuare ad avere l’appoggio dei repubblicani al Congresso, sostegno necessario per evitare la procedura di incriminazione. Le conseguenze dell’aggressione a Rosenstein possono essere letali.