Orlando, un anno dopo
I media non riescono ancora a usare la parola “islam” per i 49 gay uccisi al Pulse. Su Londra, niente cautele
Roma. Da Twitter arrivano le condoglianze più brevi e in cui le parole scelte pesano di più. Twitter Moments: “49 people lost their lives”. Washington Post: “49 people died”. New York Times: “Why did this happen?”. Omar Mateen quella sera entrò al night club gay Pulse di Orlando e fece il tiro al piccione con 49 omosessuali. Fece in tempo anche a chiamare il 911: “Nel nome di Allah il misericordioso. La pace scenda sul Profeta. Lo dico, sono a Orlando e ho fatto io la sparatoria”. “Come si chiama?”, chiede l’operatrice. “Il mio nome è giuro fedeltà ad Abu Bakr al Baghdadi”. E’ stato il più grande massacro islamista sul suolo americano dall’11 settembre. E la più grande strage commessa contro la comunità omosessuale. Ma per i media americani mainstream, in questo caso uno più uno non fa due. E un anno dopo non sanno ancora perché sia successo. Così continuano a chiedersi: “Why did this happen?”.
“I motivi dell’assalitore del Pulse: molte teorie, poche risposte”, scrive l’Orlando Sentinel, il quotidiano della città del massacro operato a nome dello Stato islamico. “Gun violence”, scrive il Washington Post, in un articolo di mille parole dove il giornalista non riesce proprio a scandire non tanto la parola “islam”, ma neppure “terrorismo” (la frase “Stato islamico” compare soltanto in una didascalia ben nascosta). “La notte scorsa, più di mille persone si sono riunite per ricordare quello che è avvenuto nel giugno di un anno fa, quando Orlando è diventata la prima città degli Stati Uniti – prima di Falcon Heights, e Baton Rouge e Dallas –- a essere sconvolta dalla violenza delle armi da fuoco”, si legge nel Washington Post. Il New York Times ricorda la strage con un articolo dal titolo: “Una notte di terrore, un anno di razzismo”. Un anno di trumpismo Durante questa settimana di commemorazioni a un anno dalla strage islamista al night club gay Pulse di Orlando, l’etere è stato inondato di hashtag e iconcine arcobaleno come “love wins” e “hate will not divide us”. Il New Yorker, in un articolo sul custode del cimitero dove riposano le vittime del Pulse, riesce a non citare mai Mateen. La Cnn pubblica un articolo in cui si parla di cinque famigliari delle vittime, si dà risalto alla necessità del “gun control” e al fatto che al Pulse sono stati uccisi in nome dell’“hate”. Emblematico della negazione è stata un anno fa l’affermazione del giornalista Glenn Greenwald, che ha insistito sul fatto che Mateen “non ha mostrato alcun segno di fanatismo religioso”. Zack Ford del Center for American Progress intanto affermava che l’islam radicale non è “più violento contro le persone Lgbt del sentimento cristiano conservatore che permea gli Stati Uniti”. Il dipartimento di Giustizia rilasciò la trascrizione della telefonata dal Pulse di Mateen dopo averla purgata di tutti i riferimenti all’islam o allo Stato islamico, giustificandolo col desiderio, come disse l’Attorney General Loretta Lynch, di “evitare di rivittimizzare” coloro che erano stati uccisi (l’Fbi un’ora dopo fu costretta a diffondere la trascrizione completa). Twitter sospese l’account del gay trumpiano Milo Yiannopoulos, che aveva scritto: “La cosa più terribile che un gay possa sentire è ‘Allahu Akbar’”. Nei giorni scorsi Usa Today ha affermato che l’attacco terroristico al Pulse ha creato “una cultura di paura dei musulmani” che “temono per la loro vita”. I musulmani non esistono mai come colpevoli, soltanto come vittime, e l’islam viene citato soltanto prima della voce “fobia”. Un anno dopo Orlando, un inglese si è lanciato con l’auto contro i fedeli della moschea di Finsbury Park, a Londra. Dopo già un paio d’ore, i media non avevano dubbi: “Islamofobia”. Niente cautele in questo caso. Un anno dopo, su Orlando, manca ancora il movente.