La Regina con i colori europei dà forza al partito della Brexit "sana"
Il premier May consegna un programma "umile" in cui c'è poco del manifesto Tory. Il movimento bipartisan anti intransigenti
Milano. Quando la Regina Elisabetta II vuol far sapere qualcosa, sa come si fa, e impallidiscono i leak mai confermati su cui ci accaniamo tutti per provare a intercettare il pensiero regale. Oggi, al tradizionale discorso in Parlamento che inaugura la legislatura, la Regina si è presentata senza corona (la corona è arrivata su un’auto tutta per lei, facendo innervosire i già furiosi manifestanti del “giorno della rabbia”, la protesta contro la risposta maldestra del governo al rogo del grattacielo Grenfell) e senza gli abiti tradizionali, ma con una mise blu e gialla: i colori dell’Europa. I commentatori hanno fornito versioni disparate sulla scelta della Regina, citando riferimenti storici e difficoltà organizzative, ma è sembrato quasi evidente che Elisabetta II stesse trollando i brexiteers, con il cappellino con i fiori gialli che parevano le stelle della bandiera europea. Il suo discorso poi ha confermato quel che si va dicendo da tempo, e cioè che il premier, Theresa May avrebbe cercato di tralasciare il suo stesso programma elettorale – quel libro blu che la May aveva presentato con orgoglio trionfale e che ora è diventato carta straccia: molti Tory sono convinti di aver perso a causa di quel manifesto. Le polemiche non sono mancate, ma la mise della Regina e il fatto che nel discorso non sia stata citata la visita di Donald Trump prevista in autunno ha consolidato l’idea che attorno alla Brexit si stia creando un partito trasversale “soft”, deciso a creare un team che affianchi il governo per restaurare una “Brexit di successo” – nel partito a questo punto c’è anche la Regina.
Per la May è iniziato un periodo duro: la settimana prossima deve ottenere la fiducia, ma ancora l’accordo-salvezza con il Dup nordirlandese non è siglato (e il Dup è bravo a giocarsi questo insperato momento di visibilità). Il negoziato sulla Brexit è cominciato a Bruxelles lunedì, e la posizione di Londra è sì “hard” ma condizionata da una debolezza politica evidente. Il Labour di Jeremy Corbyn (il quale oggi non s’è inchinato al passaggio della Regina: grandi polemiche) spera in un’altra elezione entro l’anno, contando sul fatto che la May non sopravviverà alla conferenza di partito di fine estate, visto che i Tory vorrebbero sbarazzarsi presto di lei. Ma in mezzo alle intransigenze, che sono come sempre le più visibili e chiacchierate (per il Labour c’è un’aggravante: la sua visione della Brexit è impraticabile, pretendere il controllo dell’immigrazione dentro al mercato unico è come non avere una posizione negoziale), c’è anche un altro movimento in corso, che non vuole la battaglia partitica e brutale, ma una gestione della Brexit che non lasci il Regno in un isolamento poco produttivo. Si sta discutendo della possibilità di creare una commissione che trovi una “posizione britannica di consenso” da presentare agli europei. Mentre Philip Hammond, cancelliere dello Scacchiere, lancia un piano che ponga i posti di lavoro inglesi come priorità, candidandosi così come un possibile successore della May, altri politici lavorano a una commissione di consulenza in cui la provenienza partitica o le proprie ambizioni di potere siano in qualche modo messe in secondo piano. Peter Mandelson, architetto del New Labour, dice di voler partecipare, come anche l’ex ministro degli Esteri conservatore William Hague, l’ex ministro laburista Andrew Adonis, che propone come leader John Major, ex premier conservatore. Anche Nick Clegg, ex leader liberaldemocratico rimasto senza seggio, dice che è una “grande idea”. L’hashtag per ora è la cosa migliore dell’iniziativa: #SaneBrexit.