Abbiamo condannato Trump troppo presto?
David Brooks dà voce a un dubbio garantista e mette in guardia dalla “politica dello scandalo”. In Georgia intanto il trumpismo mostra di essere vivo
New York. In America c’è un eterogeneo gruppo di commentatori e intellettuali visceralmente contrari a Donald Trump che per un attimo ha smesso di suonare i tamburi della resistenza e si è domandato: non stiamo forse correndo troppo? Non ci siamo lasciati trascinare dagli eventi, immaginando prove a carico del presidente che per il momento non ci sono e un caso di impeachment già imbastito? Il dubbio è che la fanfara costante, il fantasma di Nixon sguinzagliato per le strade di Washington, le barricate della resistenza contro il villano usurpatore della Casa Bianca abbiano trasformato questo affare in una “inchiesta su se stessa”, come dice l’intellettuale Yuval Levin. Sono giorni che David Brooks, editorialista conservatore del New York Times, va in giro per le televisioni a farsi portavoce di questo dubbio. Lui Trump non l’ha mai potuto soffrire, per mesi ha riflettuto pubblicamente su quale fosse il metodo più efficace per resistere a questo “misto di incompetenza e anarchia”, ma era anche un editor della pagina dei commenti del Wall Street Journal quando la famiglia Clinton è rimasta impigliata nel caso Whitewater, un intricato scandalo legato ad affari immobiliari sospetti fatti in Arkansas. Anche allora era stato nominato un procuratore speciale. E anche allora il caso, visto attraverso la lente di un giornale conservatore e militante, doveva risolversi con il collasso di una presidenza e l’eterna dannazione per una famiglia di patrizi della politica. Non è successo nulla di tutto questo. Era stata una grandiosa esagerazione gonfiata dall’animosità politica. Brooks teme che la storia si stia ripetendo: “Non dico che non ci debba essere un’inchiesta sui possibili legami fra Trump e la Russia. L’attacco della Russia alla democrazia americana è stato terribile, e se gli uomini di Trump erano coinvolti si tratta di alto tradimento. Quello che dico è: non corriamo troppo, presumendo che questo legame esista”, ha scritto.
Tutto può cambiare, naturalmente, ma al momento non ci sono prove certe della collusione fra l’entourage di Trump e il Cremlino; ci sono molti indizi e gli infiniti pasticci aggravanti che uno come Trump combina a ogni passo, a ogni tweet, e questi sono gli elementi classici della “politica dello scandalo”, quell’arte in cui “non devi impegnarti nella persuasione e nemmeno nella discussione politica” e “vieni sedotto dalla meravigliosa possibilità di eliminare il tuo oppositore”. A complicare lo scenario c’è il fatto che il trumpismo non è affatto morto, come dimostra la vittoria della repubblicana Karen Handel alle elezioni nel sesto distretto della Georgia, che i democratici vedevano come l’inizio di una rivolta elettorale da qui al midterm del prossimo anno. Jon Ossoff, una specia di Macron ancora più giovane, non è riuscito nell’impresa. Brooks fa notare inoltre che una squadra legale fatta delle migliori menti d’America e foraggiata con fondi illimitati avrebbe ottime possibilità di trovare qualche magagna anche a un Abraham Lincoln dei nostri tempi. A sorpresa, il capostipite di questa linea di pensiero riflessiva, che tiene a cuccia il wishful thinking, è Bob Woodward, il leggendario mastino del Watergate. Woodward rifiuta i paragoni con un’inchiesta in cui c’erano perfino le prove dei pagamenti fatti da Nixon e ai colleghi ha dato un consiglio: “Non trasformate ogni cosa in un editoriale”. Detto altrimenti: non fatevi illudere dall’idea di cacciare l’avversario con un’inchiesta. Anche perché storicamente molti scandali finiscono nel dimenticatoio. Da tempo ormai il giurista Alan Dershowitz dice agli avversari di Trump di cambiare strategia, passando dagli argomenti legali a quelli politici. La politica dello scandalo a volte non paga.