Baghdadi è vivo
Ma lo Stato islamico non potrà più raggiungere i fasti che ha toccato nel 2014. Ora è la fase dell’agonia
Roma. Partiamo con una notizia. I russi hanno dichiarato Abu Bakr al Baghdadi morto oppure morto “quasi per certo” in un bombardamento, ma il capo dello Stato islamico è vivo. L’ultimo video del gruppo da Raqqa – che è la zona dove al Baghdadi sarebbe stato ucciso il 28 maggio secondo i russi – cita il leader con il suo titolo “Emiro dei credenti” e fa seguire la formula araba “hafidhaullah”, che vuol dire “Dio lo protegga” e si usa per i vivi. È un modo spesso usato dallo Stato islamico per annunciare con nonchalance chi è ancora vivo e chi è morto (altri leader sono finiti, nei video e nelle riviste, accompagnati dalla formula taqabaluhullah, “che Dio lo accetti” e si usa per i morti). Lo Stato islamico non ha una linea protocollare sugli annunci di decesso, ma di solito è abbastanza preciso e svelto nell’ammettere le perdite più importanti – anche perché la morte per i seguaci non è che la soglia che divide questo mondo crepuscolare e corrotto dallo splendore del paradiso quindi tante congratulazioni al martire e che Dio lo accetti. Quel video vale come risposta indiretta all’annuncio del ministero della Difesa russo: per noi è ancora ufficialmente vivo. La Coalizione a guida americana non si sbilancia: non sappiamo se è vivo o morto – ma di solito è parca di commenti per non disturbare la caccia all’uomo. Il governo iracheno fino a qualche settimana fa si vantava di conoscere tutti i movimenti di Baghdadi e di essere pronto a piombare su di lui al momento giusto, ma non è affidabilissimo.
Un punto interessante: se Baghdadi morirà, il suo successore non potrà assumere il titolo di Califfo, perché uno dei requisiti della carica è esercitare il potere almeno su un fazzoletto di terra – il cosiddetto ard al tamkin, ovvero la capacità di tenere al sicuro i musulmani in un territorio ben definito. Ma il gruppo perde territorio a ritmo così veloce che il successore potrebbe tornare a essere un semplice emiro, un leader.
Se pure il capo dello Stato islamico è scampato ancora una volta alla morte, il gruppo versa in condizioni disastrose. Lo Stato islamico ha un problema esistenziale ed è il fatto che non potrà più replicare i successi degli anni passati e in particolare del 2014, quando annunciò il Califfato dalla città irachena di Mosul con un video di al Baghdadi a viso scoperto in mezzo ai fedeli. Il meglio è alle sue spalle, ora c’è la fase dell’agonia disordinata.
Le immagini che hanno reso famoso il gruppo terrorista – per esempio le parate con i carri armati e le bandiere nere nelle piazze delle città cadute sotto il loro controllo – erano il frutto di condizioni irripetibili che si sono verificate negli anni passati. Oggi quelle condizioni, per esempio il disinteresse e la passività dei governi mondiali davanti al problema, non ci sono più. Se lo Stato islamico provasse adesso a ripetere gli exploit del 2014 finirebbe subito sotto le bombe, perché su di esso incombe un ombrello di sorveglianza di droni, di aerei da ricognizione e di informatori a terra che ne segue ogni movimento. I governi occidentali e arabi hanno afferrato il concetto cardine che governa questa guerra: non intervenire subito contro lo Stato islamico è molto più costoso che intervenire dopo e, per esempio, riprendere il controllo di una città finita in mano agli estremisti richiede un prezzo enorme in termini di vite umane e di risorse che poteva essere evitato stroncando l’espansione dei baghdadisti sul nascere. Fermarli prima che trasformino le città in bunker è la sola soluzione praticabile per evitare le scene che vediamo nei telegiornali in questi giorni da Raqqa in Siria e da Mosul in Iraq, le file di profughi, i bombardamenti, le macerie, i civili morti. La fase di irragionevole passività della prima metà del 2014, quando si lasciò che lo Stato islamico dilagasse nell’Iraq centrale e del nord, non si ripeterà. Che è poi la ragione profonda per cui il gruppo una settimana fa ha fatto saltare la moschea di al Nuri, a Mosul, da dove al Baghdadi aveva fatto la sua predica. Non soltanto i leader dello Stato islamico non vogliono che un imam musulmano salga su quello stesso pulpito a ridicolizzarli, ma sono anche consapevoli che non raggiungeranno più quel picco. Se avessero una speranza pur debole di tornare a Mosul da conquistatori, magari non nel 2018 ma nel 2028, allora l’avrebbero lasciata in piedi. Ma gli estremisti sanno che, anche se in futuro ci saranno scontri tra curdi e sciiti e anche se il loro gruppo continuerà a fare attacchi terroristici, non avranno più la stessa libertà di cui hanno goduto nel 2014. Tutti i nuovi tentativi di prendere Mosul con la forza, per esempio, indurrebbero i governi occidentali e arabi a reagire e a lanciare bombardamenti d’urgenza.
Senza Califfato, senza il controllo fisico di un territorio, il numero delle reclute calerà – come è già successo, è della settimana scorsa il rapporto del governo italiano che nota il calo dei foreign fighter, ma è una tendenza fortissima che vale per tutte le nazioni. Ci saranno ancora attacchi terroristici nei paesi occidentali perché il numero dei fanatici è molto alto e la loro Età dell’oro si è prolungata per anni, hanno avuto il tempo di organizzarsi, ma quei terroristi saranno i combattenti irriducibili di una guerra persa, non gli araldi di una nuova era islamista. Il clima da fine impero è in ogni notizia: dall’editto che vieta agli uomini dello Stato islamico di usare i social network – eppure era il loro punto di forza negli anni del trionfo, per fare propaganda – alle notizie sempre più frequenti di rappresaglie contro le famiglie degli estremisti in Iraq, cacciate dalle loro case. E’ il genere di rivalsa che scatta quando i vincitori hanno la certezza di avere vinto e i perdenti non hanno più chance di rovesciare la situazione.