L'accordo tra Europa e Giappone non è mainstream ma è enorme
Solo adesso Greenpeace si preoccupa del Jefta, a negoziati praticamente conclusi. Malmström: "Vi arrabbiate per niente"
Roma. Soltanto nel 2016, gli esportatori europei hanno subìto un aumento delle tariffe del 10 per cento, per una perdita complessiva di 27 miliardi di euro. E’ questa la sintesi del report pubblicato l’altro ieri dalla Commissione europea sul commercio, e secondo la commissaria al Commercio Cecilia Malmström, è la dimostrazione che “il flagello del protezionismo è in ascesa. Affligge le compagnie europee e i loro dipendenti. Ed è preoccupante che i paesi del G20 mantengano la maggior parte delle barriere commerciali”. Lo scorso anno, Bruxelles ha lavorato per mitigare i dazi delle esportazioni soprattutto in quattro paesi particolarmente costosi per gli investitori, la Cina, Israele, l’Ucraina e la Corea del sud (provate ad acquistare una bottiglia di vino italiano a Seul), recuperando circa 4,2 miliardi di euro. Ma è su un paese in particolare che l’Europa sta lavorando sin dal 2013: il Giappone. Secondo le indiscrezioni della stampa, i negoziati per il trattato di libero scambio tra Bruxelles e Tokyo (Jefta, ovvero Japan-Eu Free Trade Agreement) dovrebbero concludersi “nelle prossime settimane”. Una trattativa che l’Europa e il suo secondo più grande partner commerciale in Asia dopo la Cina avevano già deciso di concludere “entro la fine del 2017”, e che per Bruxelles sarebbe il più grande deal commerciale della storia.
Ma naturalmente c’è chi si oppone alla creazione di un polo economico pari a un terzo del pil mondiale. Venerdì Greenpeace ha pubblicato online le bozze degli accordi usciti dal 18° round di negoziati tra Europa e Giappone. Secondo Greenpeace, le 205 pagine di leak – dense e particolareggiate – mostrerebbero come “i governi europei fanno ancora affari segreti che calpestano l’ambiente, nonostante avessero promesso di non farlo più. Milioni di persone si sono opposte alle trattative con il Canada e gli Stati Uniti per via del loro possibile impatto sulla democrazia e sull’ambiente, ma la Commissione non ha imparato niente dai propri errori”, ha detto Kees Kodde, responsabile Greenpeace per il commercio. I problemi dell’accordo, secondo Greenpeace, riguardano soprattutto la trasparenza delle negoziazioni, il “rischio di disboscamento illegale” e la caccia alla balena giapponese. Ma ieri, durante una conferenza stampa, la commissaria Cecilia Malmström ha risposto: “Come è noto, Greenpeace non è nota per promuovere accordi commerciali: qualunque cosa ci sia in un qualunque accordo commerciale, loro sono contrari. Ma si arrabbiano per niente”. Secondo Malmström, l’unica cosa non negoziabile all’interno del trattato con il Giappone sono “gli standard sociali e ambientali, e la protezione dei consumatori”. Ed è un’opportunità per rinnovare “il sostegno all’accordo di Parigi”.
E’ strano che Greenpeace si preoccupi proprio adesso del Jefta. In un articolo di Politico Europe del settembre del 2016 sull’enorme indotto che aveva portato alle ong la lotta al partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip) – i cui negoziati sono per ora sospesi – c’è un dettaglio interessante. Hosuk Lee-Makiyama, economista che ha lavorato per l’Unione europea al trattato con il Giappone e al suo impatto economico complessivo, diceva a Politico che nel 2015 il suo team aveva contattato molte ong per discutere sulle “possibili minacce ambientali” provocate da un eventuale accordo. “La maggior parte delle ong”, diceva Lee-Makiyama a Politico, “e tra loro alcune anche molto importanti, mi hanno risposto esattamente: ‘Non ci contattate a meno che non si tratti del Ttip”. In pratica le ong erano focalizzate esclusivamente sull’accordo più grosso e mediatico, senza dare importanza alle questioni considerate “minori”, e senza mostrare collaborazione effettiva con le istituzioni. In ogni caso Malmström ha detto ieri che “il capo negoziatore del Jefta si trova a Tokyo in questo momento, e non andrà via finché l’accordo non sarà finalizzato”.
I conservatori inglesi