Le purghe di Corbyn
Il leader del Labour ha usato i metodi da “leader supremo” pro Brexit. Ma un elettore di sinistra anti Brexit oggi chi dovrebbe votare?
Milano. La Brexit è come un’epidemia, titola il nuovo numero della rivista di sinistra New Statesman, appena la tocchi muori, i leader conservatori lo hanno scoperto a suon di esiti elettorali umilianti, ma non è che dalle parti del Labour si sia trovato un antidoto. Jeremy Corbyn, leader del partito, è un brexiteer, e ormai questo è evidente: fece campagna per il “remain” al referendum dello scorso anno ma in modo invero poco convincente. Ora che a quest’ultima tornata elettorale (s’è votato l’8 giugno, il Labour ha preso oltre il 40 per cento dei voti) Corbyn ha mostrato come fa campagna quando crede a quello che dice, lo abbiamo capito bene. Se ancora fosse rimasto qualche dubbio, al voto parlamentare di giovedì è stato fugato: il laburista moderato Chuka Umunna ha presentato un emendamento alla versione del governo sulla Brexit proponendo di stabilire con chiarezza la permanenza nel mercato unico e nell’unione doganale europea del Regno Unito. La linea di partito dettata da Corbyn è stata: votate contro l’emendamento. Quarantanove deputati non hanno seguito l’indicazione e hanno votato a favore – la mozione non è comunque passata. Quattro di loro facevano parte del governo ombra: uno si è dimesso, gli altri tre sono stati licenziati da Corbyn. Cacciati. Questi sono i metodi del “leader supremo” del Labour (copyright Evening Standard), che aveva provato a essere conciliante e unitario dopo il successo alle elezioni, sentendosi molto sicuro di sé e della propria leadership, ma che è ora tornato al suo usuale illiberalismo. I traditori se ne devono andare quindi – fa appena un po’ sorridere il fatto che Corbyn abbia vinto premi interni al Labour nei decenni da parlamentare per aver raggiunto record di voti contrari alle indicazioni del partito.
Però che Corbyn sia a favore della Brexit e amante dei metodi autoritari da purghe interne non è una novità, è pur sempre uno che vorrebbe uscire dalla Nato e che subisce il fascino di Assad, di Putin e dei signorotti venezuelani. Il punto politico è un altro: il Labour ha capitalizzato sulla propria ambiguità nei confronti della Brexit, ma nel momento in cui è costretto a togliere il velo, rischia di essere contagiato dall’epidemia che ha già falcidiato i Tory. Delle 262 circoscrizioni che il Labour ha vinto alle elezioni dell’8 giugno, 100 avevano votato per il “remain” e le altre per il “leave”. Dei 36 nuovi seggi conquistati dal Labour, metà erano per la Brexit e metà contro. Il popolo supergiovane che ha accolto Corbyn a Glastonbury come una rockstar la settimana scorsa e che è in Corbynmania assoluta è contrario alla Brexit, mentre i sindacati e gli elettori delle zone industriali, che hanno contribuito a creare la leadership stessa di Corbyn, sono per la Brexit. Come si tengono insieme due mondi così distanti? Con l’ambiguità e giocando sul fatto che, in Parlamento, i laburisti più di sinistra sono a favore della Brexit e contro il mercato unico perché lo considerano un retaggio thatcheriano, mentre i laburisti più di destra sono per la Brexit perché vogliono il controllo dell’immigrazione. I moderati sono pochi, e infatti la mozione Umunna non aveva chance di vincere. Ma l’ambiguità permanente non è una strategia, così come non lo è vendere una “soft Brexit” che non ha possibilità di esistere. La domanda allora è: l’elettore laburista contrario alla Brexit chi dovrebbe votare? Vedere alla voce “liberaldemocratici” o “nuovo partito”.
Cose dai nostri schermi