#LoveWins, una settimana di "resistenza Lgbt", tranne che nell'islam
Sono state due settimane di marce e proteste per l’orgoglio arcobaleno. Ma in nome di una piattaforma che di liberale e libertario aveva ben poco
Roma. “Combattere i nazionalismi che invocano muri e confini”. Questa la piattaforma del Roma Pride, la manifestazione annuale dell’orgoglio Lgbt, che ha chiamato alla “resistenza contro questa involuzione” con slogan edificanti come “Make Italy gay again”. Ma come ha chiarito il settimanale inglese Spectator, “la battaglia per i diritti gay si ferma ai confini dell’islam”. L’Isis lo sa bene e, riprendendo lo slogan usato dopo la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti che ha dichiarato legale il matrimonio gay in base al quattordicesimo emendamento, ha lanciato, oltre ai gay dai palazzi di Raqqa, anche l’hashtag #LoveWins.
Sono state due settimane di marce e proteste per l’orgoglio arcobaleno. Ma in nome di una piattaforma che di liberale e libertario aveva ben poco. Alla marcia Lgbt di Chicago, i funzionari dell’orgoglio arcobaleno hanno fatto sparire le bandiere con la stella di Davide delle queer israeliane. Erano “offensive” per un evento che si diceva “inclusivo”. Non è la prima volta che a queste sfilate si attaccano i gay rei di “sionismo”, come un tempo di “immoralità”. Forse perché la “resistenza Lgbt” è talmente progressista da anteporre la causa antisraeliana alla difesa dei propri membri. La grande marcia di New York è stata tutta scandita da slogan per la “resistenza” contro la presidenza Trump, a favore dell’Obamacare, del gun control (ne sanno qualcosa i 49 omosessuali sterminati dall’Isis nel tiro al piccione del Pulse Club di Orlando) e contro la politica sull’immigrazione della Casa Bianca. L’orgoglio gay poteva aspettare, piegato alle esigenze politiche del momento. A Toronto, la marcia si è sottomessa ai militanti afroamericani di Black Lives Matter. Così è stata bandita la polizia. A Minneapolis hanno chiesto al capo della polizia, la lesbica Janee Harteau, di non farsi vedere in giro. Intanto, gli islamisti di Erdogan pestavano i gay a Istanbul, in Cecenia i cleptocrati di Kadirov li scorticavano in carcere e a Gaza la polizia di Hamas giustiziava civili e militanti sospettati di essere gay. Alle sfilate Lgbt occidentali non si sono viste bandiere contro la Cecenia, slogan contro il trattamento dei gay da parte dei socialisti del Venezuela (a lungo gli antifascisti di regime, dai guevaristi di Cuba alle pagine di Rinascita, hanno usato la parola “pederasta” come una ingiuria), proteste contro gli schiavisti dello Stato islamico, cori contro l’Indonesia che ha di recente frustato gli omosessuali in piazza, strali contro l’uccisione di giornalisti e militanti Lgbt del Bangladesh, flash mob contro l’Iran che ha appena arrestato trenta omosessuali in un raid notturno e li ha sottoposti al “test della sodomia”, mentre abbondavano slogan da veri resistenti come “No cops! No banks”. A New York, invece, si dava di “queer bashers” al segretario di Stato Rex Tillerson e a Jared Kushner. Ad aizzare le masse arcobaleno a New York c’era Chelsea Manning, idolo dell’identità fluida, che tuonava contro l’America, immemore di essere stata graziata da Obama. Il più noto editorialista australiano, Andrew Bolt, si è chiesto perché non ci sono barche contro l’Isis alla sfilata gay friendly di Sydney.
E’ bellissimo l’orgoglio arcobaleno dentro a questa bolla liberal di diritti, languore, benessere e probità morale. E’ la “resistenza Lgbt” per cacciare padre Livio Fanzaga e boicottare Dolce & Gabbana, rei di aver detto di credere alla famiglia tradizionale e che i figli non si fabbricano in provetta, ma dimenticando così gli “immorali” che languono oltre confine. Com’era la filastrocca arcobaleno di quest’anno, “no ban, no wall, New York is for all”?