Caro Donald, la Corea del nord vuole essere il Pakistan, non l'Iran
Si sta assistendo a una guerra di posizione e propaganda, più geopolitica che fisica
Roma. Dobbiamo fare qualcosa di più di una semplice dichiarazione, ha detto ieri il presidente sudcoreano Moon Jae-in, secondo quanto riportato dalla stampa coreana citando fonti interne alla Casa Blu – il palazzo del governo di Seul. È per questo che ieri sera Moon ha chiesto alle Forze armate americane di unirsi alla Corea del sud per eseguire una serie di test missilistici nelle acque territoriali sudcoreane, sulla costa est della penisola. Secondo quanto dichiarato dallo Us Pacific Command, il comando americano nel Pacifico, lo show di forza è stato una “risposta diretta al test del missile balistico intercontinentale condotto il 4 luglio scorso dalla Corea del nord”. Durante il test sono stati usati sia l’Army Tactical Missile System, un sistema missilistico della Lockheed Martin a corto raggio, sia lo Hyunmoo Missile II sudcoreano, un sistema domestico che era stato già protagonista, a fine giugno, di un test a cui aveva assistito personalmente Moon Jae-in. A giudicare dai mezzi messi sul palcoscenico, per precisione e potenza di fuoco, il messaggio lanciato da Stati Uniti e Corea del sud ieri è stato quello di essere in grado di intervenire nel minor tempo possibile e di colpire, anche a distanza, obiettivi strategici con bassissimi margini di errore.
Non solo propaganda. Che si stia assistendo a una guerra di posizione e propaganda, più geopolitica che fisica, lo dimostra il fatto che in Corea del sud, compresa la capitale Seul, tutto prosegue secondo il business as usual. E ieri perfino le Borse asiatiche, che solitamente reagiscono ai test nordcoreani, si sono mosse soltanto nell’immediatezza del lancio dell’Icbm, senza troppi scossoni. “La Corea del nord innervosisce i mercati ma i banchieri centrali sono più importanti”, ha detto a Reuters Kathleen Brooks del City Index di Londra, “Anche se le ambizioni belliche nordcoreane possono avere ripercussioni sui mercati, non pensiamo che ci siano attualmente eventi geopolitici tali da provocare volatilità”. Secondo la Kcna, l’agenzia di stampa ufficiale di Pyongyang, Kim Jong-un ha definito il test del missile balistico intercontinentale “uno schiaffo in faccia”, “un pacco dono per gli Yankees” nel giorno della loro Festa dell’Indipendenza, ha detto che la Corea del nord è entrata “nella fase finale” della guerra con gli Stati Uniti, perché finalmente il paese possiede la tecnologia per miniaturizzare le testate nucleari e posizionarle sui missili in grado di raggiungere il territorio americano. A fronte di tutto questo, bisogna cercare di capire quale sarà la risposta della comunità internazionale.
Fairbanks, Alaska - Agente della polizia militare di guardia all'ingresso di Fort Greely (foto LaPresse)
L’Alaska nel mirino? Il Hwasong-14 nordcoreano testato ieri sarebbe, secondo le analisi dei dati a disposizione della comunità internazionale, in grado di colpire l’Alaska, ma non le Hawaii. Da anni la Corea del nord testa missili a corto e medio raggio in grado di colpire il Giappone e la Corea del sud, ma questa è la prima volta che viene testato un missile che può minacciare direttamente l’America. Washington però sapeva che – prima o poi – sarebbe successo: un mese fa Pyongyang aveva effettuato un test motore di quello che sembrava un Icbm, e generalmente, dopo un test motore, la Corea del nord testa il missile balistico vero e proprio. Al discorso di Capodanno, quando il leader Kim Jong-un aveva detto che uno dei principali obiettivi del paese era quello di avere un Icbm, Donald Trump aveva risposto con un tweet: “Non succederà!”. E invece, ieri, è successo. Quanti missili balistici intercontinentali, a medio raggio, possiede la Corea del nord? Quante testate nucleari? E Pyongyang possiede davvero delle testate nucleari miniaturizzate? Per quanto gli analisti si sforzino di osservare, attraverso le immagini satellitari, i movimenti nelle aree di ricerca, gli unici dati di cui la comunità internazionale è in possesso sono quelli che vengono resi noti dalla Corea del nord (attraverso i test e attraverso i comunicati ufficiali). Altre fonti sono i defector delle élite, i fuoriusciti del regime che avevano un ruolo tale da essere a conoscenza del programma di armamenti. L’ultimo, in ordine di tempo, ad aver dato alcune informazioni ad America, Corea del sud e Giappone è Thae Yong-ho, ex diplomatico nordcoreano a Londra, che però non faceva parte dell’élite militare e dunque difficilmente può aver dato informazioni utili.
L'arrivo del Terminal High Altitude Area Defense (THAAD) alla base aerea di Osan, 70 chilometri a sud di Seoul
La strategia di Trump. È ancora impossibile capire cosa l’Amministrazione Trump voglia fare della Corea del nord, soprattutto adesso che ha oltrepassato la linea rossa. Da una parte, è ormai dimostrato dall’Onu stessa che la Corea del nord è diventata maestra nel raggirare le sanzioni economiche internazionali. Dall’altra i militari americani si sforzano di rassicurare il presidente: siamo pronti alla guerra in qualsiasi momento, ha detto ieri in una dichiarazione ufficiale il generale Vincent Brooks, comandante delle Forze armate americane in Corea del sud, “solo l’autocontrollo ci separa dalla guerra” – che vuol dire: non rispondiamo alle provocazioni, ma se rispondessimo… Tuttavia le opzioni militari sono quasi tutte impossibili da praticare, e il problema si chiama rappresaglia. Brooks da poco più di un anno comanda i quasi trentamila uomini delle Forze armate americane che sono di stanza in Corea del sud. Seul ha a disposizione 3 milioni e mezzo di uomini, di cui soltanto 650 mila, però, fanno parte del personale attivo, i riservisti sono 2 milioni 900 mila.
Secondo un report di Stratfor di qualche tempo fa, opinione però confermata al Foglio da vari analisti, a seguito di un first strike compiuto dalle Forze americana e sudcoreana, anche uno strike chirurgico effettuato nei centri di controllo di Pyongyang, la Corea del nord sarebbe in grado di mobilitare l’artiglieria che è dispiegata lungo il 38° parallelo, nella Zona demilitarizzata. La sola artiglieria sarebbe in grado in pochi minuti di colpire Seul, che si trova a un’ora e mezzo di auto dal confine, una città da dieci milioni di persone. In più, sempre secondo Stratfor, va considerata la possibilità che Pyongyang utilizzi il migliaio di missili balistici a corto raggio che possiede e le armi non convenzionali come il gas sarin. Ieri Motoko Rich sul New York Times ha messo insieme i pezzi in un lungo articolo, spiegando tutti i rischi: colpire l’arsenale nordcoreano è difficile perché fatto con postazioni mobili o sotterranee. “L’ultima volta che gli Stati Uniti hanno preso in considerazione l’idea di attaccare la Corea del nord è stato nel 1994, dieci anni prima del primo test nucleare. Il segretario alla Difesa dell’epoca, William Perry, chiese al Pentagono di preparare un piano d’attacco per uno ‘strike chirurgico’ sui reattori nucleari, ma tornò indietro dopo aver concluso che la guerra avrebbe portato a centinaia di migliaia di morti”.
Quando si parla di Corea del nord e negoziazioni, William Perry e Robert Gallucci sono gli artefici della politica coreana di Bill Clinton, l’ultima che ha portato a qualche tipo di risultato. Ma Perry e Gallucci si rapportavano a Kim Il-sung prima, e a Kim Jong-il poi. A fine 2011, con l’arrivo di Kim Jong-un, tutto è cambiato. Anche l’opzione d’intelligence, cioè l’eliminazione di Kim Jong-un, è difficilmente praticabile: è noto che all’interno del cerchio magico di Pyongyang ci sarebbe qualcuno in grado di prendere il suo posto, e lui è ormai paranoicamente attento a farsi vedere agli eventi pubblici – impossibile un contatto con lui dall’esterno, perfino il mese scorso con il suo “amico” Dennis Rodman.
Che cosa vuole la Corea del nord? Pyongyang vuole essere riconosciuta come potenza nucleare dalla comunità internazionale. L’America non vuole che gli sia riconosciuto lo status, ma più volte Kim Jong-un ha fatto sapere di non essere disposto a sedersi al tavolo dei colloqui se la condizione è il disarmo. Non è un caso se l’altro ieri James Clapper, ex zar dell’intelligence americano, ha detto che ormai la denuclearizzazione della Corea del nord non può essere una condizione. Il modello è quello del Pakistan, non quello dell’Iran: i nordcoreani non vogliono un deal con Washington in cui sarebbero costretti a fare concessioni. Come successo con Islamabad, vogliono essere riconosciuti come una potenza nucleare de facto, senza dover fare – almeno ufficialmente – nessun passo indietro sul programma di armamenti. Lo status di potenza nucleare serve a mantenere in vita la dinastia dei Kim. E’ anche per questo che Pyongyang ha sempre rifiutato la mano tesa di Seul, quanto meno nel commercio e nel business: aprirsi al mondo significherebbe la creazione di una borghesia non controllabile. E ogni obiettivo raggiunto aumenta la propaganda interna, vuole dire: per colpa dei nostri nemici siamo costretti a spendere molti soldi per i nostri armamenti mentre voi cittadini morite di fame.
Pyongyang, cittadini nordcoreani celebrano l'annuncio del test della bomba a idrogeno (foto LaPresse)
Che cosa vuole Trump? Anzitutto, il presidente americano voleva che la minaccia nordcoreana fosse risolta dalla Cina. Ma anche ieri ha fatto notare, via Twitter, che il business tra i due paesi continua a essere a pieno regime. Trump si riferiva ai dati del General Administration of Custom, che in una conferenza stampa a Pechino a metà aprile ha rivelato che il business tra Cina e Corea del nord nel primo quadrimestre del 2017 è cresciuto del 37,4 per cento rispetto allo stesso periodo del 2016. Le esportazioni cinesi sono aumentate del 54,5 per cento, mentre le importazioni dalla Corea del nord del 18,4 per cento. Unica battuta d’arresto è sul carbone – un business da un miliardo di dollari all’anno per Pyongyang – le cui vendite da febbraio si sono praticamente dimezzate. La Cina ha smesso di comprare carbone dalla Corea del nord dopo le ultime sanzioni delle Nazioni Unite e dopo l’omicidio del fratello di Kim Jong-un, Kim jong-nam, avvenuto all’aeroporto di Kuala Lumpur.
Che cosa vuole la Corea del sud? Il presidente sudcoreano Moon Jae-in è arrivato ieri a Berlino, dove ha incontrato la cancelliera Angela Merkel. La Corea del nord sarà al centro del dibattito del G20, ed è possibile che Moon riesca a coinvolgere l’Unione europea nella strategia contro la minaccia nordcoreana. Moon dovrebbe rivelare il suo programma nei confronti della Corea del nord stasera, in un discorso alla Koerber Foundation di Berlino.
L'editoriale dell'elefantino