Donald Trump (foto LaPresse)

Da Varsavia a Mosca

L’eroe identitario Donald Trump indica comunismo, islam e burocrazia come sintomi del grande male occidentale. Nell'incontro con Putin si vedrà se il Cremlino ha preso le sue parole come una minaccia o una formalità

New York. Nel trionfale discorso di Donald Trump a Varsavia si è sentita chiaramente la mano di Steve Bannon. La trovata più bannoniana è stata quella di mettere sotto un unico ombrello ideologico il fantasma del comunismo, il terrorismo islamico e l’ossessiva burocrazia delle democrazie occidentali. Non ha parlato di “deep state” ma ci è andato molto vicino quando ha citato la “strisciante burocrazia statale che prosciuga la vitalità e la ricchezza del popolo”. Trump ha presentato le minacce al popolo polacco come sintomi distinti che fanno capo alla stessa malattia, tesi che il suo consigliere più pensoso va rimuginando e sviluppando da anni. Bannon vede la democrazia tecnocratica contemporanea, alleata con la finanza astratta che ha tradito l’originario spirito del capitalismo, come un totalitarismo dal volto umano, specchio rovesciato del radicalismo islamico che prolifera nel vuoto lasciato dall’occidente. La critica al “managerialismo” articolata dal conservatore James Burnham negli anni Quaranta dovrebbe essere sempre tenuta nella coda dell’occhio ogni volta che il presidente tiene un discorso di ampio respiro politico. In questi casi si affida a Bannon per i concetti e al compare Stephen Miller per la stesura, e il risultato si vede.

 

Quello di piazza Krasinski è probabilmente il più sentito ed efficace grido identitario in difesa dell’occidente minacciato che Trump abbia prodotto dall’inizio della presidenza. Al popolo che ha vissuto tutti gli orrori del Novecento, il presidente americano ha ricordato la “domanda fondamentale del nostro tempo”, ovvero se “l’occidente ha la volontà di sopravvivere”. “Abbiamo abbastanza fiducia nei nostri valori per difenderli ad ogni costo? Abbiamo abbastanza rispetto per i nostri cittadini per difendere i nostri confini? Abbiamo il desiderio e il coraggio di preservare la nostra civilizzazione a dispetto di chi vuole sovvertirla e distruggerla?” ha domandato Trump, mettendo fra i pericoli per l’occidente non soltanto la Russia e l’islam, ma anche il male oscuro di un anonimato in salsa liberale che svuota e appiattisce le differenze. “L’occidente è diventato grande non grazie alla burocrazie e ai regolamenti ma perché è stato permesso alle persone di inseguire i loro sogni e il loro destino”, ha detto Trump, producendosi in un elogio dei valori universali che l’occidente rappresenta e allo stesso tempo sottolineando le identità particolari, la famiglia, richiamandosi più volte alla fede di un un popolo che in piazza gridava: “Vogliamo Dio”. La sovrapposizione fra le icone di san Giovanni Paolo II e di Ronald Reagan era inevitabile. Con senso del contesto, Trump ha esaltato con parole identitarie il paese a guida nazionalista e ha intimato alla Russia di fermare la sua opera di destabilizzazione in Ucraina, Siria, Iran per unirsi alle nazioni “responsabili” che “difendono la civiltà”. Un buffetto che Trump ha reso ulteriormente più lieve – era inevitabile nel discorso alla folla festante rimbrottare Mosca – dicendo in conferenza stampa che “nessuno sa davvero se è stata soltanto la Russia a interferire nelle elezioni americane”. Domani nell’incontro con Putin ad Amburgo si vedrà se il Cremlino ha preso le parole di Varsavia come una minaccia o una formalità. Infine, sull’articolo 5 dello statuto della Nato, quello che impegna tutti i paesi membri a difendere chi è attaccato, Trump si è limitato a dire che l’America “lo difende nei fatti, non a parole”.