Le guerre invisibili dell'Italia. Chiacchierata con il ministro Pinotti
Sì, contro gli scafisti in Libia è giusto stare dalla parte di chi risponde con il fuoco. Sì, contro l’Isis è giusto sostenere chi combatte una guerra storica, anche grazie all’Italia. Migranti, jihadisti, Mediterraneo
Roma. Fermare il flusso di migranti verso l’Italia è un obiettivo primario, ma evocare “il blocco navale” non è corretto, “è tra l’altro tecnicamente un atto di guerra”, dice al Foglio il ministro della Difesa Roberta Pinotti. Controllo della costa libica, questa è la priorità, perché bloccare barche, canotti, gommoni in mare non si può. In mare si può soltanto soccorrere, “non arriva il trafficante a parlare – dice la Pinotti – arrivano donne con neonati in braccio”, è ovvio che a quel punto il dovere è salvare, salvare, salvare. Ma se si riuscisse a gestire i migranti che raggiungono la costa libica – “che per la maggior parte non sono libici” – con la creazione di campi a gestione internazionale (dell’Onu) in Libia allora uno degli obiettivi sarebbe raggiunto. E’ il modello che la Germania ha applicato alla Turchia, “ma si sa che quell’approccio, su questa rotta africano-libica, non è ripetibile – dice la Pinotti – perché in Turchia c’è un presidente molto presente (e questo il ministro lo dice con un sorriso ma senza leggerezza) e in Libia c’è sì un interlocutore riconosciuto dalla comunità internazionale ma anche un’instabilità politica e territoriale molto grande”. Quindi si siglano accordi, si lavora in modo congiunto con la Guardia costiera libica (“e se ci sono scontri, i libici rispondono al fuoco degli scafisti”), si forniscono mezzi militari e si forniscono mezzi finanziari “perché non dimentichiamo che l’economia libica è molto fragile, il business del petrolio è calato con la guerra civile” e per creare campi “in cui le condizioni umane siano accettabili” ci vogliono investimenti. In questa direzione va la richiesta italiana all’Unione europea, ricostruzione e sviluppo in Libia: così si possono evitare non soltanto gli sbarchi “ma anche contrastare quel sistema criminale di tratta degli uomini che in questi anni di guerra e di instabilità si è grandemente amplificato”.
L’Europa, eccolo il nostro interlocutore che un po’ solidarizza e un po’ si chiude, lasciando che l’immigrazione si trasformi in un problema italiano. Non è vero, tuonano da Bruxelles, non dimenticate che con la Grecia e con l’accordo turco si è contenuta la crisi e di molto, ma si torna da capo: con la Libia non si può operare con lo stesso schema. “Trovo che ci sia una grande miopia in Europa – dice il ministro Pinotti – e che la leadership europea non si dimostri adeguata nella gestione di una emergenza che ci riguarda tutti”. E sì che l’Europa ha deciso di assumersi le proprie responsabilità, “dopo la Brexit, dopo Trump, con l’Olanda, la Francia di Macron e la Germania, è nato quello che chiamiamo il neoeuropeismo che però di fronte ai problemi concreti ricade nelle sue vecchie abitudini”. Il ministro commenta la retromarcia austriaca sulla frontiera del Brennero, ieri parevano schierati soldati e carri armati e oggi scopriamo, dalle parole del cancelliere Kern, che non è vero, che non c’è alcuna intenzione di sigillare militarmente il confine tra l’Austria e l’Italia, “ma siamo in balìa di questa isteria elettorale” che coglie di volta in volta i paesi che hanno elezioni in vista (in Austria sono a ottobre) e che si traduce in un intoppo continuo a un processo che si fonda su collaborazione e solidarietà. “Quel che ha detto il presidente francese Macron – continua la Pinotti – con la distinzione tra migranti economici e migranti politici non è giustificabile oggi: va bene in momenti in cui non c’è un’emergenza”, ma questi momenti non esistono ormai più. “Ci vuole un salto di qualità”, dice il ministro, la capacità di considerare la questione dei migranti non come un buco cui basta un rattoppo, ma come una variabile strutturale del sistema europeo.
Nonostante le divergenze, passi avanti ci sono, afferma rassicurante la Pinotti, “oggi si apre il vertice di Tallinn con i ministri dell’Interno europei e la proposta italiana gode già di ampio sostegno”. La Guardia costiera libica “ha mostrato di volersi responsabilizzare e ha messo a disposizione personale motivato che noi abbiamo addestrato con risultati ritenuti da tutti soddisfacenti”. Questo è il punto cardine della strategia militare italiana: responsabilizzare gli interlocutori locali, e aiutarli nel loro compito “complicatissimo” di controllo. Va così anche nella lotta contro lo Stato islamico in Iraq.
“Abbiamo aiutato l’esercito iracheno e le forze curde a riprendere la città di Mosul”, dice “con orgoglio” Pinotti, raccontando in pochi passaggi che cosa è stata la tragedia di Mosul: l’arrivo dello Stato islamico di fronte a un esercito iracheno sfasciato, la popolazione della città che ha tentato di capire se si poteva convivere con questi nuovi padroni, e poi “l’inferno”. Tre anni di inferno, vessazioni, violenze, stupri, “ora capiamo veramente che cosa è accaduto con le testimonianze dei sopravvissuti”. L’intervento italiano – 1.400 uomini, secondo contingente dopo quello degli Stati Uniti – è stato gestito con l’obiettivo chiaro “del sostegno, dell’addestramento, dell’aiuto – sottolinea il ministro – perché doveva essere ben chiaro che sarebbero stati gli iracheni a liberarsi dello Stato islamico”. La lezione irachena dopo l’invasione del 2003 è sempre qui come paradigma di quel che non deve più succedere, questo pensiero è tanto prevalente che non si sta più a discutere, ma “i nostri militari hanno addestrato il 25 per cento delle forze peshmerga”, dice Pinotti, ed è questo il motivo dell’orgoglio: partecipare a missioni multilaterali, aiutare le forze sovrane di combattere i terroristi. C’è ancora molto da fare, tantissimo, sul cosiddetto “post” incombono domande decisive, in Iraq e soprattutto in Siria, ma di questo bisognerà parlare (e molto) in un’altra occasione, ora per Pinotti è importante fornire una risposta a chi dice che i problemi delle migrazioni e del terrorismo si risolvono andando alle loro origini nei paesi in guerra e che poi però contrasta ogni intervento militare in nome di un pacifismo che negli anni ha assunto caratteristiche invero contraddittorie. Il modello Italia “è aiutare, addestrare, investire”, e capire che questo aiuto è utile: “A Erbil, all’inizio del Ramadan, si sono presentati uomini yazidi senza nulla, in ciabatte e maglietta: siamo i mariti, i fratelli, i parenti delle donne yazide rapite, violentate, uccise. Vogliamo combattere. Durante il Ramadan di giorno ‘addestrate noi’, dissero – ricorda Pinotti – I due battaglioni yazidi contro lo Stato islamico sono nati così”.