Mosul. Foto LaPresse/Reuters

Mosul libera? E' la strategia di Obama continuata da Trump

Daniele Raineri

Lo Stato islamico spara sui civili in fuga, ma la sua resistenza è agli sgoccioli 

Roma. Ora è ufficiale, lo Stato islamico ha perso la città di Mosul in Iraq, dopo una battaglia urbana molto difficile che è cominciata a ottobre 2016. Mosul è stata il rifugio dell’Isis durante gli anni della crisi, la sua capitale durante gli anni del trionfo, il suo centro di gravità, la sua più grande storia di successo, la sede del Califfato. I media ora traboccano di pezzi scritti da esperti che invitano a non lasciarsi prendere dall’entusiasmo e hanno ragione: i baghdadisti hanno dimostrato di essere una legione compatta e disciplinata e di di sapere combattere con crudeltà fino all’ultimo, pur sapendo di difendere una causa persa. L’ordine era di resistere metro per metro, di far pagare un prezzo alto alle forze del governo iracheno e di lasciare la città in condizioni disastrose e l’hanno eseguito. Un filmato preso dal telefonino di un combattente morto e finito ieri sulle tv irachene rivela che i cecchini dell’Isis sparavano sui civili in fuga – questa cosa era già stata detta, ma non c’era la prova video – e ridevano con accento non arabo mentre lo facevano: “murtaddin”, quindi apostati, finti musulmani, dicevano mentre miravano ai civili con i pochi averi in bilico sulla testa. I “veri musulmani” non avrebbero mai abbandonato il Califfato – secondo loro. Sono arrivati al punto di far saltare in aria la moschea di al Nuri dove Abu Bakr al Baghdadi aveva esplicitamente accettato il titolo di Califfo davanti ai credenti, perché erano perfettamente consapevoli di cosa sarebbe successo non appena l’avessero perduta: anche se non sono rimaste che rovine, in questi giorni reporter e soldati sciamano attorno alla al Nuri, la coprono di bandiere, registrano video, attratti dal magnetismo del luogo simbolo.

   

Eppure, considerati tutti gli inviti alla cautela, non si può nemmeno sottovalutare la portata di questa sconfitta per lo Stato islamico e per la sua “war by suicide” – la guerra fatta a colpi di suicidi, come l’ha definita l’analista inglese Charles Winter. Lo Stato islamico lancia sfide che poi non è in grado di vincere e fa promesse ai seguaci che però non può mantenere. La marcia di conquista verso l’occidente e il resto del mondo è una fantasia a occhi aperti. E intanto l’esercito iracheno già annuncia la prossima tappa della guerra di liberazione del paese: Tal Afar, una piccola città a metà strada tra Mosul e il confine con la Siria. Tal Afar in questi anni è stata la vera centrale di comando dello Stato islamico, un po’ per ragioni affettive e di appoggio locale – molti capi dello Stato islamico sono nati e cresciuti lì – un po’ per la posizione.

   

Come ricordava due giorni fa un pezzo del Daily Beast, la crisi dello Stato islamico spiega perché l’Amministrazione Trump non ha ancora annunciato la nuova strategia di lotta contro l’Isis: perché quella dettata dall’Amministrazione Obama sta funzionando bene. Il predecessore di Trump alla Casa Bianca ha delle colpe nell’identificazione della minaccia, avvenuta molto in ritardo, ma il modello di guerra elaborato dopo il 2014 ha provato la sua efficacia: l’occidente, soprattutto l’America, ci mette aerei, addestramento, armi, intelligence e altri genere di appoggio; i partner locali, siano essi i curdo-arabi a Raqqa, militari turchi ad al Bab, milizie libiche a Sirte, soldati filippini a Marawi oppure iracheni a Mosul, fanno il lavoro pericoloso, quindi espugnare le città metro per metro. Gli osservatori dicono che ci sono stati cambi minimi a questa dottrina, per esempio Trump ha delegato molto le scelte delicate – prima l’autorizzazione per un raid passava per Obama, ora non è più necessario – e ha permesso una mano più pesante nei bombardamenti. Ma in genere la strategia di adesso è quella di prima, soltanto è arrivata in una fase più avanzata.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)