Gli americani sono indispensabili nella guerra all'Isis, ma gli iracheni non vedono l'ora di cacciarli fuori
Anche all’interno delle forze combattenti c’è una spaccatura tra chi è debitore verso Washington e chi non lo tollera
L’America ha dato un aiuto essenziale all’Iraq nella campagna contro lo Stato islamico, ma adesso si dovrebbe preparare a essere cacciata fuori dal paese dopo la vittoria a Mosul. Più lo Stato islamico diventa debole e si fa meno minaccioso e più la presenza americana diventerà un problema – soprattutto perché ci sono parti politiche che aizzano il risentimento nazionale. Un aneddoto di due anni fa: è il marzo 2015, durante la battaglia per riprendere la città di Tikrit – una delle numerose tappe che hanno portato alla riconquista di Mosul – le milizie sciite dicono al Foglio che gli americani stanno lanciando con il paracadute rifornimenti nelle zone controllate dallo Stato islamico ad al Anbar, che è una provincia nell’ovest del paese. Aiutano i terroristi! Queste voci – smentite e prive di fondamento – sono riferite proprio mentre sulle nostre teste passano i jet americani che vanno a bombardare la prima linea dello Stato islamico, mezzo chilometro più in là. E’ una guerriglia urbana, se non ci fossero gli aerei e i bombardamenti di precisione l’avanzata sarebbe molto difficile. Eppure non conta. “Ma non vedete qui davanti ai vostri occhi che i jet americani bombardano lo Stato islamico?”.
Silenzio imbarazzato. Piuttosto che ammettere che di fatto c’è un’alleanza con gli americani, non rispondono. Pochi giorni fa, durante la liberazione di Mosul, di nuovo le stesse voci: elicotteri americani sono passati sulle montagne Hamrin (a est) e quelli dello Stato islamico non hanno sparato contro di loro”. E’ un’insofferenza che crepita e si fa sentire nello stesso momento, letterale, in cui si dovrebbe festeggiare assieme la batosta subita dai nemici. Un altro episodio: a ottobre un ufficiale della Golden Division, le forze speciali irachene sempre in prima fila durante gli scontri, ha accettato un’intervista con il Foglio ma prima si è calato sul volto un passamontagna, per non essere riconosciuto nelle foto. “Paura dello Stato islamico?”. “No, delle milizie”. Anche all’interno delle forze combattenti c’è una spaccatura tra chi è debitore verso gli americani e chi non li tollera.
Lunedì un pezzo del Los Angeles Times raccontava di come un ufficiale iracheno addestrato dal Pentagono fosse diventato il più apprezzato puntatore durante i bombardamenti nella battaglia di Mosul: sempre in contatto con i soldati, riceveva le coordinate delle postazioni dello Stato islamico e le passava ai piloti in volo sopra la città. L’ufficiale, nome in codice “Arcangelo”, fa parte di quelle divisioni dell’esercito addestrate dagli americani – e a spese degli americani. Eppure un’altra parte rilevante delle forze combattenti, in particolare le milizie sciite, non vede l’ora di sbarazzarsi degli alleati scomodi.
Il motore di questo risentimento è il governo iraniano, potenza egemone nella regione, che accetta i bombardamenti degli americani soltanto perché accelerano il collasso dello Stato islamico, ma non vede l’ora di cacciarli fuori dall’Iraq prima e dalla Siria poi. In questo contesto c’è da tenere d’occhio il duello tra il primo ministro iracheno attuale, Haider al Abadi, e quello precedente, Nuri al Maliki – che vorrebbe tanto diventare anche il prossimo primo ministro alle elezioni del 2018. Abadi è una figura di garanzia, neutra, accettato anche dagli americani e ora ha l’enorme capitale politico della vittoria di Mosul. Maliki è un abile manovratore e potrebbe guadagnare trazione nell’Iraq del dopo Stato islamico, dove i partiti filoiraniani aspettano che tutta questa gloria militare goduta sul campo si trasformi in un controllo politico ferreo sul paese.