Per gli islamisti un attacco a Gerusalemme è come un attacco a Roma
Se non siamo pronti a mostrare agli jihadisti che non ci piegheremo abbiamo già perso. Parla il generale israeliano Yossi Kuperwasser
Roma. “Spesso mi chiedono perché il terrorismo islamico non ha ancora attaccato l’Italia. Forse siamo unici ed eccezionali, dicono gli italiani. Non lo siete, e anzi, non capite che i terroristi hanno già attaccato l’Italia! La guerra dell’islam radicale è contro l’occidente, non contro la Francia o il Belgio. I confini interni da questo punto di vista non esistono. Loro attaccano l’occidente perché attaccano un’idea, e questa idea è contro l’islam. Colpire Nizza, per loro, è come colpire Genova. Ma sembra che questo voi non lo capiate”. Il generale israeliano Yossi Kupervasser si lascia spesso prendere dal discorso quando racconta le ragioni per cui, secondo lui, l’occidente non è ancora pronto a vincere sul terrorismo islamico. Per Kuperwasser, ex capo della ricerca dell’intelligence militare dell’esercito di Israele ed ex direttore generale del ministero degli Affari strategici e dell’intelligence, oggi analista di livello internazionale, il principale problema non è negli equipaggiamenti, ma nella mentalità. “Davanti al terrorismo, l’Europa non riesce a identificare davvero chi è il suo nemico. E questa incapacità di definire la minaccia si riflette nel fatto che l’occidente non è davvero saldo nel difendere i propri valori. Se non siamo pronti a combattere per proteggere i nostri valori stiamo mostrando una debolezza letale”, dice il generale. Il Foglio ha incontrato Kuperwasser all’inizio della settimana, prima dell’attentato alla Spianata delle moschee di Gerusalemme. Ma il generale aveva già aveva messo in chiaro che quella combattuta da Israele è la nostra stessa guerra: “Alcuni dicono: un certo attacco è contro Israele, ha un contesto diverso, il movente è politico. Non è così. Anche quelli che vogliono uccidere noi urlano ‘Allah akbar’. I palestinesi combattono una battaglia contro gli ebrei ma si considerano anche islamisti che combattono una guerra islamica”.
L’ultimo saggio del generale Kuperwasser si chiama “A shared enemy: a shared defence. Lessons from Israel’s response to terror”, un saggio importante sul cosiddetto “modello israeliano” di antiterrorismo che il Foglio ha tradotto lo scorso marzo. Anche in quel saggio Kuperwasser sosteneva che la guerra da combattere è una sola. Da stratega qual è, parlando al Foglio a margine di un’evento dell’Eipa, la Europa Israel Press Association, Kuperwasser ricorda che l’esito della nostra comune guerra dipende quasi più dalla capacità di apprendere e di conoscere il nemico che dagli armamenti. “Combattere il terrorismo è una competizione di studio e apprendimento. E’ l’apprendimento, inteso in un senso più ampio della raccolta d’intelligence, il modo in cui questa guerra si combatte e si vince. Ma i terroristi imparano in fretta”. Studiare il nemico ha consentito a Israele di apprendere lezioni fondamentali che, dice Kuperwasser, “possono essere esportate”, ma quello che manca in Europa è la mentalità. “Il punto principale di combattere il terrorismo è convincere l’altra parte che, in questa guerra di ideologie, noi non ci piegheremo in nessun modo. Israele ha imparato l’arte della resilienza: a ogni attacco la forza dei nostri valori aumenta. Ma l’Europa non riesce a trasmettere la stessa saldezza, non riesce a convincere i terroristi di essere imbattibile”. Qui la distinzione diventa importante. Si dice spesso che il “modello israeliano” di lotta al terrorismo richiede dei pesanti cambiamenti allo stile di vita dei cittadini a causa della pervasività dei dispositivi di sicurezza ma, al contrario, per Kuperwasser al forza del modello israeliano è proprio quella di non cambiare in ciò che è importante, valori e ideologia. “Se quelli che ci uccidono finiscono anche per cambiarci, per farci abbandonare i nostri valori, vuol dire che abbiamo già rinunciato a vincere”, dice.
Chiediamo a Kuperwasser se la crisi migratoria che investe l’Europa avrà riflessi sulla lotta al terrorismo. “Non ci sono islamisti radicali che cercano di infiltrarsi in occidente dai barconi, i radicali non migrano verso l’Europa o l’America, ma verso il Califfato”, dice. “Il problema è che in Europa c’è già un sistema di radicalizzazione pronto che li aspetta, spesso favorito anche dai governi che accettano come interlocutori a nome della comunità musulmana elementi estremisti. Così, anche se gli immigrati non sono una minaccia quando arrivano, possono diventarlo in futuro. La soluzione migliore, per i governi occidentali, è lavorare a politiche di sostegno e di prevenzione della radicalizzazione con i musulmani pragmatici e laici direttamente nei loro paesi”.