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Le catene della sinistra sull'immigrazione

Peter Beinart - The Atlantic

Quelle scomode verità che i liberal non vogliono più discutere per colpa del conformismo culturale, del paternalismo ideologico e delle pressioni economiche. Una radicale autocritica, da sinistra

Scrive The Atlantic (luglio-agosto)

 

C’è un mito che i liberal come me trovano attraente, ed è quello secondo cui in questi anni soltanto la Destra sarebbe cambiata”. Inizia così il lungo saggio di autocritica sull’immigrazione firmato da Peter Beinart e pubblicato dalla rivista The Atlantic. “Nel giugno 2015 – così ci siamo continuati a raccontare noi liberal – Donald Trump è sceso al piano terra con il suo ascensore dorato e improvvisamente il nativismo, filone già da tempo presente nella politica conservatrice, lo ha inghiottito. Ma questa è soltanto una parte della storia. Se la destra è diventata più nazionalistica, la sinistra lo è diventata ancora meno di quanto non lo fosse. Dieci anni fa i liberal si facevano domande sull’immigrazione in una maniera tale che oggi causerebbe uno choc ai progressisti”.

 

Di default oggi
gli economisti liberal sostengono
i benefici economici dell'immigrazione.
Ma la discussione
non è poi così unanime

“Nel 2005, un blogger di sinistra scrisse: ‘L’immigrazione illegale provoca devastazione dal punto di vista economico, sociale, culturale; è una presa in giro dello stato di diritto ed è una disgrazia anche solo in base al senso di giustizia più basilare’. Nel 2006, un columnist liberal scrisse che ‘l’immigrazione riduce i salari dei lavoratori domestici che competono con gli immigrati’ e che ‘il fardello fiscale degli immigrati con uno stipendio basso è anche piuttosto evidente’. Conclusione dell’editorialista: ‘Dobbiamo ridurre il flusso di immigrati poco qualificati’. Sempre nel 2006, un senatore del Partito democratico scrisse: ‘Quando vedo sventolare le bandiere messicane alle manifestazioni pro immigrazione, sento una vampata di risentimento patriottico. Quando sono costretto a ricorrere a un traduttore per comunicare con il signore che mi ripara l’automobile, provo una certa frustrazione’. Il blogger era Glenn Greenwald, il columnist era Paul Krugman e il senatore era Barack Obama”. Il punto è che “autorevoli liberal non si opponevano all’immigrazione un decennio fa. La maggior parte di loro riconosceva come essa portasse benefici all’economia e alla cultura americana. Gli stessi erano a favore della concessione ai clandestini di una strada per diventare cittadini. Eppure questi liberal affermavano che gli immigrati meno qualificati deprimevano gli stipendi degli americani altrettanto poco qualificati e mettevano a dura prova il welfare degli Stati Uniti. Rispetto a oggi, prima c’erano molte più probabilità di sentirli dire – per citare Krugman – che ‘l’immigrazione è un tema particolarmente spinoso perché mette in conflitto princìpi fondamentali’. Oggi, invece, rimangono poche tracce di quelle sfumature nel ragionamento. Ancora nel 2008, la piattaforma del Partito democratico parlava degli immigrati illegali come dei ‘nostri vicini’, ma poi metteva in guardia: ‘Non possiamo continuare a consentire alle persone di entrare negli Stati Uniti senza documenti, senza controlli. Quelli che attraversano i nostri confini illegalmente, e quelli che danno loro lavoro, vanno contro lo stato di diritto’. Nel 2016 questo linguaggio era scomparso. La piattaforma programmatica del Partito democratico descriveva come ‘un problema’ il sistema americano dell’immigrazione, ma non l’immigrazione illegale in sé. Poi si concentrava in maniera pressoché totale sulle forme di contrasto dell’immigrazione che i Democratici avversavano. La piattaforma del 2016 nemmeno usava la parola ‘illegale’ o qualunque variazione sul tema. ‘Uno o due decenni fa’, spiega Jason Furman, già capoeconomista di Obama alla Casa Bianca, “i Democratici erano divisi sull’immigrazione. Adesso sono tutti d’accordo, tutti appassionati e tutti riflettono molto poco su eventuali conseguenze negative’. Come è successo?”. Dietro questo “liberal shift”, scrive Beinart sull’Atlantic, ci sono varie spiegazioni. La prima: nei due decenni che hanno preceduto il 2008, il numero di immigrati illegali è continuato ad aumentare di molto negli Stati Uniti, poi si è essenzialmente stabilizzato. Però se è vero che il numero di questi immigrati è rimasto comunque elevato, “le preoccupazioni di tipo economico che Krugman sollevò 10 anni fa rimangono cruciali ancora oggi”.

 

 

“Una spiegazione più ampia è di carattere politico. Tra il 2008 e il 2016 i Democratici sono diventati sempre più certi del fatto che il numero crescente di latino-americani presenti negli Stati Uniti avrebbe dato un vantaggio elettorale al partito. Per conquistare la presidenza – si sono convinti i Democratici – non sarebbe stato necessario rassicurare i bianchi scettici dell’immigrazione, visto che ci sarebbe stata comunque la base dei latinos cui rivolgersi. ‘Il settore dell’elettorato americano che sta crescendo più rapidamente è corso nelle braccia dei Democratici lo scorso novembre – scrisse la rivista Salon dopo la vittoria di Obama nel 2008 – Se questa tendenza continua, il Gop è condannato a una traversata nel deserto lunga 40 anni’”. Questa dipendenza dal voto latino, spiega il reportage, ha reso il Partito democratico sempre più incline all’attivismo pro immigrazione. Con tanto di campagne mirate contro l’Amministrazione Obama che hanno spinto l’allora presidente a fare marcia indietro anche sulle politiche dei rimpatri dei clandestini.

 

 

 

“Alle pressioni degli attivisti pro immigrazione si è affiancata la pressione della Corporate America, in particolare del settore hi-tech allineato ai Democratici che utilizza il programma di visti H-1B per importare lavoratori. Nel 2010, il sindaco di New York Michael Bloomberg – insieme ai ceo di società come Hewlett-Packard, Boeing, Disney e News Corporation – ha costituito l’associazione New American Economy per perorare politiche dell’immigrazione business-friendly. Tre anni dopo, Mark Zuckerberg e Bill Gates hanno contribuito a fondare Fwd.us per promuovere un’agenda simile. Il combinato disposto fra attivismo latino e attivismo padronale ha reso pericolosa per i Democratici ogni discussione sui costi dell’immigrazione, come ha imparato sulla sua pelle Bernie Sanders” che, nel luglio 2015, si dichiarò contrario a un aumento dell’immigrazione che avrebbe danneggiato i lavoratori meno qualificati, salvo poi essere attaccato pesantemente dai media liberal e quindi compiere una parziale marcia indietro.

 

I progressisti devono prendere sul serio
la voglia di coesione sociale. Ma per fare questo la sinistra deve riparlare dell'odiata assimilazione

“Ma è stato davvero dimostrato che l’affermazione per cui ‘gli immigrati che arrivano negli Stati Uniti sottraggono posti di lavoro ai nativi’ è ‘scorretta’? Una decina d’anni fa, i liberal non erano così sicuri di ciò. Nel 2006 Krugman scrisse che in America si stava verificando ‘un aumento significativo di lavoratori con bassa qualifica rispetto all’andamento degli altri input della produzione, dunque è inevitabile che ciò si traduca in un calo dei salari’. Difficile immaginare oggi un liberal di peso che ripeta questa frase. Al contrario, i commentatori progressisti attualmente dicono quasi di default che tra gli economisti esiste un consenso pressoché totale sui benefici dell’immigrazione. Ma in realtà tale consenso non esiste. Secondo un esauriente rapporto delle National Academies of Sciences, Engineering and Medicine, ‘gruppi della stessa categoria di quella cui appartengono gli immigranti – in termini di qualifiche professionali – possono subire una riduzione salariale come risultato di un incremento dell’offerta di forza lavoro indotta dall’immigrazione’. Ma gli accademici a volte minimizzano tale riduzione salariale perché, proprio come i giornalisti e i politici liberal, devono fronteggiare pressioni affinché sostengano l’immigrazione”. Infatti, osserva l’Atlantic, “molti degli studiosi dell’immigrazione regolarmente citati dalla stampa hanno lavorato, o hanno ricevuto finanziamenti, da società o associazioni pro immigrazione”. Poi ci sono le pressioni di tipo culturale, come ricorda Paul Collier, economista di Oxford, nel suo libro “Exodus”: gli accademici mostrano ‘un desiderio spasmodico di non offrire il fianco’ ai bigotti nativisti e ‘gli scienziati sociali tendono ogni loro singolo muscolo per dimostrare che l’immigrazione è positiva per tutti’. George Borjas, docente all’Università di Harvard, sostiene che da quando ha iniziato a studiare l’immigrazione, negli anni 80, i suoi colleghi economisti sono diventati molto meno tolleranti rispetto a una qualsiasi ricerca che enfatizzi i costi dell’immigrazione. Esiste, mi ha detto Borjas, ‘molta auto-censura da parte dei giovani scienziati sociali’”. Beinart non fa discendere da tutto ciò che la chiusura ermetica dei confini nazionali sia l’unica opzione a disposizione della sinistra quando si tratta di immigrazione: “I liberal piuttosto devono prendere sul serio la voglia di coesione sociale che hanno gli americani. Per promuovere allo stesso tempo un’immigrazione di massa e una maggiore redistribuzione economica, devono convincere un numero maggiore di americani bianchi nativi del fatto che i nuovi arrivati non indeboliranno i legami dell’identità nazionale. Ciò vuol dire rispolverare un concetto che in molti, a sinistra, odiano: l’assimilazione”.