Il catalano Junqueras ci spiega il piano indipendentista, con un occhio all'Ue
Il tempo scorre e l’indipendentismo ha fretta di far fede alla sua promessa: far votare i cittadini, nonostante il disaccordo già espresso dal governo di Madrid e dal Tribunale Costituzionale
Madrid. Non soltanto le urne ci saranno, ma saranno anche stracolme di schede, diceva il vicepresidente della Generalitat catalana Oriol Junqueras, il giorno prima che Barcellona decidesse come organizzare il referendum sull’indipendenza del prossimo 1 ottobre. Il tempo scorre e l’indipendentismo ha fretta di far fede alla sua promessa: far votare i cittadini, nonostante il disaccordo già espresso dal governo di Madrid e dal Tribunale Costituzionale, e Junqueras non si perde d’animo. Nel 2014, quando si organizzò il voto partecipativo del 9 novembre (poi andato in fumo), Forbes lo aveva inserito nella lista dei 100 personaggi più influenti al mondo. Se qualcuno gli dà del nazionalista però si arrabbia. Chiamatelo solo indipendentista. La logica è semplice: quando la Catalogna sarà uno stato, Oriol Junqueras potrebbe perfino tornare a fare lezioni all’Università e occuparsi della sua famiglia. “I nazionalisti sono quelli del Partito popolare”, taglia corto. Cioè quelli che, al Palazzo della Moncloa di Madrid, rispondono picche a qualsiasi richiesta.
Tono pacato, laconico, barbetta incolta, il vicepresidente della Catalogna, leader di Esquerra Republicana, lo storico partito di sinistra che sostiene a denti stretti l’indipendenza, ha seguito passo dopo passo la cosiddetta “questione catalana”. Anzi, ne è stato il fautore. Fin da piccolo, suo padre gli raccontava la storia della regione, come si fa con la favola della buonanotte, e di un partito che, dichiarato fuorilegge da Franco, fucilò il suo ex presidente, Lluís Companys. Dicono che Junqueras divenne indipendentista già a otto anni. Oggi, a quarant’anni di distanza – una preparazione al Liceo italiano di Barcellona, docente di Storia moderna e contemporanea all’Università autonoma, ex eurodeputato e braccio destro del presidente della Generalitat Carles Puigdemont – è uno dei politici più in voga: paladino del referendum, ha richiamato i catalani alla disobbedienza civile e si prepara a percorrere l’ultimo miglio di una lunga battaglia. “Se c’è una maggioranza separatista in Catalogna, dobbiamo trovare il modo di dimostrarlo e, dopo, di metterla in pratica costruendo un nuovo stato”, dice al Foglio, pronto per una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Insomma la guerra tra Madrid e Barcellona continua e il problema resta ben presente sul tavolo politico di una Spagna che da anni si divide tra unionisti e indipendentisti. “C’è sempre stata una lotta tra le due capitali – dice Junqueras – Basta guardare alla rivalità calcistica che va oltre lo sport in sé. A ogni modo, sia i sondaggi sia le analisi condotte ci dicono che sono sempre di più i cittadini che sono disposti a partecipare al referendum, che vogliono votare. E che il desiderio di votare aumenta alla stessa velocità con la quale aumenta anche la nausea verso uno stato di deplorevole qualità democratica”.
I toni si accendono, soprattutto quando si ricorda, en passant, che secondo la Costituzione il paese è unico è indivisibile. “Beh, nemmeno il suffragio femminile era riconosciuto… sappiamo che la Costituzione può essere cambiata, a seconda di ciò che interessa. La Costituzione però non vieta certo di votare. Lo stato spagnolo forse non riconosce o accetta la volontà dei cittadini della Catalogna, noi invece lo facciamo”. Comunque vada a Madrid si profila una guerra disciplinare a suon di ricorsi, per ogni passo fatto da Barcellona. “Il governo di Mariano Rajoy ha detto che farà tutto il possibile per impedire il voto. Anche ricorrendo a qualsiasi tipo d’ingiustizia e misfatto, come già detto dal ministro dell’Interno. Noi invece faremo tutto il possibile affinché la gente voti”. Se il misfatto è però l’applicazione della legge qualcosa non torna. Tanto più che secondo gli ultimi dati del Centro d’investigazione sociologica, la questione catalana non interessa neppure all’1 per cento degli spagnoli. Stanchezza, noia, indifferenza si fondono con la sensazione di una farsa impune, in cui i duellanti non riflettono sul fatto che i primi a subirne le conseguenze sono gli stessi cittadini. Per esempio anche guardando a Bruxelles. “Siamo membri a pieno titolo all’interno dell’Unione europea e questo resta il nostro desiderio. I catalani perdono tale status? Dove sta scritto questo? E perderemmo questo status grazie al governo spagnolo? Be’ non c’è dubbio allora che non ci vogliono così tanto come dicono”, ironizza Junqueras. Se c’è una cosa sui cui la Generalitat non transige è la devozione alla causa. Tant’è che in queste ultime ore il governo ha vissuto una serie di epurazioni ad hoc, volute proprio dal vicepresidente: quattro consellers e un segretario del governo sono stati licenziati, colpevoli solo di aver dubitato del cammino intrapreso. Perfino la sigla catalana di Podemos si è distanziata dalla politica indipendentista di Puigdemont. “All’interno stanno discutendo su differenti opzioni, ma siamo convinti che i loro elettori saranno sempre a favore della democrazia e per il diritto di voto”, taglia corto Junqueras. E se tutto questo venisse bocciato? “Se dovesse vincere il no accetteremo il risultato, perché prima di essere indipendentisti siamo democratici. Detto questo è chiaro che Esquerra Repubblicana continuerà a perseguire le proprie convinzioni. Io e altri siamo indipendentisti da sempre, da bambini, e continueremo a esserlo. Non ho intenzione di restare in politica a lungo. Quando verrà il momento tornerò all’Università, non sono di certo eterno. Ciò che è importante è il futuro della Catalogna, che spero sarà presto libero, socialmente equo e privo di corruzione”, dice Junqueras. Che poi, da buon condottiero, aggiunge con fierezza: “Il futuro personale di ciascuno di noi è irrilevante rispetto a quello del nostro paese”.
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