È possibile bersi una birra al pub da soli senza sentirsi scemi?
L'Asia alle prese con l'elogio della solitudine. E alcuni locali si attrezzano per avere clienti singoli
Roma. Da qualche tempo alcuni locali tra i più fighetti di Seul, quelli nelle zone hipster come Hongdae o Sinchon, piazzano all’ingresso un cartello in cui si legge che l’honsul è il benvenuto. Vuol dire letteralmente “bere da soli”, ed è una specie di invito per chi altrimenti avrebbe acquistato un paio di lattine di birra al convienience store da bere sul divano davanti a una serie tv. Faceva notare il Korea Herald, e poi ieri anche Quartz, che qualcosa sta cambiando perfino nella socialità asiatica: se alcuni locali si attrezzano per avere clienti singoli, che magari siedono al bancone per fare due chiacchiere con il barista, vuol dire che c’è una domanda crescente. E l’esempio della Corea del sud, che può essere esteso anche in società confuciane simili come quella giapponese, ha un significato profondo, perché qui la collettività è tutto. Si va a bere, la sera, con i colleghi, per rafforzare il senso di comunità. Le donne coreane, slegate dalla famiglia, da un marito, hanno poca “forza sociale”.
L’individuo ha un significato perché legato a qualcuno, per questo perfino i viaggi, le vacanze, sono un momento collettivo, e i tour operator non organizzano quasi mai viaggi individuali. (I coreani sono appassionatissimi di montagna, un coreano su tre va a fare trekking durante i fine settimana almeno due volte al mese, e sempre in gruppo: provate a chiedere a un qualunque albergatore di Zermatt, sul versante svizzero del Cervino, quanto fatturato proviene dai gruppi coreani). In pratica, secondo le convenzioni più retrograde e bigotte – e apparentemente in via d’estinzione – nel momento in cui l’individuo si allontana dalla comunità inizia lo stigma sociale, e la vergogna di sentirsi un outsider, letteralmente.
Il problema in questo caso però è un altro: il fatto che alcune di queste regole sociali si stiano trasformando tra i giovani coreani, viene affrontato dai media con il solito tic dell’emergenza solitudine. “I sudcoreani non soltanto bevono da soli. Ma mangiano da soli, viaggiano da soli, e si sposano da soli”, scrivevano ieri su Qartz Soo Kyung-jung e Isabella Steger – riferendosi a queste attività solitarie come a dei fenomeni di massa: in realtà la Corea del sud si sta solo normalizzando per quel che riguarda l’età da matrimonio: nel 2015 la media d’età per una donna al primo matrimonio è trent’anni, e venti è l’età media in cui un giovane va a vivere da solo. Vuol dire, presumibilmente, un decennio di vita da single (e sì, una ossessione per i set fotografici da matrimonio, che spesso vengono forniti anche ai single, ché non si sa mai). In America c’è stato un enorme dibattito sul fatto che l’elogio della solitudine, questo canto dell’individualismo, abbia portato poi a uno scollamento della società, del “paese reale” e dei suoi reali bisogni. Ma in Asia la questione è ben diversa: lì dove l’individualismo non è mai esistito, nei paesi più economicamente avanzati (ma anche emancipati, come nelle grandi città indonesiane) i millennial stanno dando un segnale: vogliamo del tempo per noi, e siamo disposti anche a spendere per averlo. Lo scorso anno Donald Hall sul New Yorker ha scritto un meraviglioso racconto sulla differenza tra “solitude” e “lonliness”. E’ la differenza tra il potersi fermarsi al pub a bere una birra con il desiderio di non dover rivolgere la parola a nessuno e senza essere giudicati, e quel senso di abbandono che poi spesso si chiama pure alcolismo. Basta conoscere il confine.