Maduro contro
Il disastro apocalittico venezuelano dimostra che la rivoluzione senza élite è solo l’involuzione verso un contesto di autoritarismo brutale
Lo scrittore venezuelano Alberto Barrera Tyszka ha annotato un fatto strano, inaudito, in un articolo nella Süddeutsche Zeitung sulla rivoluzione bolivarista di Hugo Chávez: oggi la stragrande maggioranza o la quasi totalità dei venezuelani non ha i soldi per comprarsi una porzione di tonno, ma il pieno di benzina costa un dollaro. Chávez viveva del suo carisma e del grande paradosso rivoluzionario, tipicamente latinoamericano: retorica antiyankee e commercio con l’America su uno stesso piano, a condizione che il prezzo del petrolio, di cui il Venezuela è ricchissimo, fosse sui cento dollari al barile. Caduto il carisma, e sacralizzati con la malattia e morte del caudillo il regime di militarizzazione del potere, la insuperabilità della rivoluzione, l’impossibilità del cambiamento democratico già resa ovvia da una Costituzione ad hoc, ecco la deriva tragica di Maduro. La rivoluzione contro le élite si trasforma nel colpo di stato permanente, se una maggioranza ostile al regime vince le elezioni, come è accaduto, si ricorre all’onnipotenza presunta di una Corte costituzionale approntata per impedire al Parlamento eletto di governare, poi all’elezione senza elettori di una costituente che svaluta e svuota e uccide con il Parlamento legale ogni principio democratico, i generali onnipresenti prendono il potere reale, la corruzione dilaga e, con il petrolio ai livelli di prezzo bassi di oggi, tutto il paradigma economico salta, in pochi mesi il Venezuela diventa, da uno dei paesi potenzialmente più ricchi del mondo, uno dei più poveri, violenti, insicuri, un luogo di sofferenza sociale e di miseria etica.
Le élite sono decisive in ogni forma statuale, anche in quelle rivoluzionarie, anche in quelle segnate dall’integralismo religioso. Se l’Iran non avesse i mullah e gli ayatollah, non avesse lo scudo di Qom e della sua scuola teocratica a difendere il governo civile, sarebbe finito in breve come il Venezuela. Uno stato, e di conseguenza una società organizzata, non vive senza la competente guida di una politica economica e del commercio, senza una diplomazia efficace, senza un blocco sociale di sostegno che si esprime innanzitutto nella capacità di costruire e lasciar lavorare un’élite. E questo nel bene e nel male. E’ un fatto, non un valore. Oggi si pensa che le classi dirigenti siano fungibili. Ma oltre al Venezuela, guardate la Cina. Il mondo è letteralmente trainato da un esperimento insieme fragilissimo e formidabile: il turbocapitalismo pianificato e sorvegliato dal Partito comunista cinese, senza una soluzione di continuità con il principio elitario sommo che fu tipico dei regimi comunisti, addirittura il partito unico sotto la direzione di un politburo. Il Giappone si regge e cerca di prosperare con istituzioni forti costruite paradossalmente sulla continuità imperiale, continuità anche religiosa, e sulla nuova Costituzione dettata dai generali americani vincitori della guerra nel 1945. La Russia, comunque si voglia giudicare la politica di Putin e la sua personalità autoritaria, è uscita dal marasma degli anni di Eltsin, quando le élite traumatizzate dalla fine del comunismo finirono nella più completa anarchia, perché e solo perché una nuova élite, per quanto anch’essa predatoria, ha saputo stabilizzare un quadro di comando che assicura una crescita e una resistenza, perfino alle sanzioni occidentali, del sistema economico. Cuba vive tuttora della forza della famiglia Castro, e praticamente di nient’altro, dopo una lunga stagione all’ombra dell’Unione sovietica. E non parliamo dell’Europa, dove la salvezza sta appunto nelle élite, come dimostrano le vicende di Francia e Germania, oltre che il complesso processo di omologazione intergovernativa che ha sede nella capitale dell’unione, Bruxelles.
Il disastro apocalittico venezuelano dimostra ampiamente che la rivoluzione senza élite è solo la disgregazione e l’involuzione verso un contesto di autoritarismo brutale, in mezzo alla soffocante prevalenza della miseria sociale e della repressione incrociate. La corruzione e l’anomia, l’assenza di legge, è sempre più forte dove le élite, anche quelle voraci e incuranti dei livelli di diseguaglianza e di illibertà che pure si rilevano nelle democrazie istituzionali, si dissolvono. La questione del potere a Washington, dove è in atto un inaudito esperimento di presidenzialismo demagogico puro, corretto fino ad ora con risultati notevoli dalla presenza di un ceto amministrativo insofferente delle mattane di un golfista erede di fortune immobiliari che al massimo nella vita ha guardato la televisione, da un Congresso che sorregge il quadro istituzionale e sa dire dei no risonanti, da una magistratura all’erta e da una libera stampa formidabile nonostante i suoi vezzi e le sue scorribande politicamente corrette, fa parte di questa decisiva faccenda del ruolo delle élite anche nelle società globalizzate moderne (il tema infatti è antico come il mondo).
Guardando quell’infelice paese che affonda nella tragedia e nella violenza senza senso, nella povertà e nell’inflazione che va verso il 1000 per cento, c’è una sola cosa da fare al mattino: pregare per le élite, che Dio ce le conservi.