È l'ora della crisi geopolitica seria ma il dipartimento di Stato trumpiano non esiste ancora
L’Amministrazione Trump ha trascurato il settore diplomatico, ha subito fatto piazza pulita degli uomini di Obama secondo le regole dello spoils system e poi non ha più riempito i buchi
Roma. Il dipartimento di stato americano arriva impreparato alla crisi atomica con la Corea del nord. Nell’ora in cui la diplomazia si fa più necessaria e il bisogno di un apparato solido e ben rodato di contatti e di canali di comunicazione è fortissimo, il dipartimento di stato è scoperto: manca ancora un ambasciatore in Corea del sud – che in questo frangente è l’alleato da rassicurare ogni giorno – non c’è l’assistente segretario di stato per l’Asia (che di solito c’è sempre) e non c’è il sottosegretario di stato per il Controllo delle armi e la sicurezza internazionale, un ruolo che è stato assegnato puntualmente negli ultimi quarant’anni.
Questa disorganizzazione non è un caso specifico che riguarda il dossier Corea del nord, è piuttosto un problema generale. L’Amministrazione Trump ha trascurato il settore diplomatico, ha subito fatto piazza pulita degli uomini di Obama secondo le regole dello spoils system e poi non ha più riempito i buchi. A otto mesi dall’inaugurazione, il segretario di stato Rex Tillerson non ha ancora nominato nessuno per i 38 incarichi più importanti del dipartimento, ma ci sono almeno 95 ruoli rilevanti in stato d’abbandono. L’ambasciatore americano per la Russia è stato nominato soltanto un mese fa ma ancora mancano quelli per il Venezuela, l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia, che sono tutte aree di crisi – e intanto mandare ambasciatori in Francia e in Germania non guasterebbe.
E dire che questo disastro organizzativo non ha ragione di essere perché Tillerson – ex manager della multinazionale Exxon – è persino accusato di fare micromanagement, ovvero di tentare di occuparsi di tutto senza delegare, quindi l’opposto di trascurare. Ma è come se stesse concentrando i suoi sforzi nella direzione sbagliata. Un articolo impietoso uscito cinque giorni fa sul New York Times raccontava che persino i molti messaggi d’auguri per le feste nazionali degli altri paesi che ogni settimana il dipartimento di stato invia all’estero e che di solito sono considerati compiti di routine svolti in uffici di basso livello adesso devono passare prima per i vertici del dipartimento, e lì giacciono per settimane in attesa di essere spesso riscritti e rimandati indietro.
Subito dopo il suo arrivo Tillerson aveva promesso una riorganizzazione e un ripensamento profondi del dipartimento, aveva assunto due studi di consulenti e creato cinque commissioni per analizzare la riforma. Entro il 15 settembre dovrebbe spiegare a grandi linee al Congresso che cosa intende fare, ma per ora l’unica proposta che ha avanzato è tagliare del trentuno per cento il budget e dell’otto per cento il personale. I suoi incontri con la stampa sono molto rarefatti e finora non ci sono successi significativi da segnalare, per esempio il suo recente viaggio per riconciliare Arabia Saudita e Qatar impegnati in una contesa che potrebbe finire molto male non ha sortito effetti. Per paradosso, il suo più grande successo per ora è avere convinto la comunità internazionale a votare compatta le nuove sanzioni contro la Corea del nord, ma è senza dubbio stato aiutato dal fatto che non ci sono molte altre alternative: o si fa pressione o si passa alle armi.
Tillerson, che tra i membri dell’esecutivo di Trump è quello che riceve più critiche, sta provando a controllare la situazione senza molto coordinamento con gli altri settori dell’Amministrazione. Dieci giorni fa detto che l’opzione regime change a Pyongyang non è considerata, ma il direttore della Cia, Mike Pompeo, aveva detto pochi giorni prima che invece è tra le soluzioni studiate. Oggi il segretario ha dovuto rimediare alle parole di Donald Trump, che durante un incontro con la stampa che era stato programmato per parlare dell’emergenza droga ha minacciato con parole totalmente improvvisate e durissime la Corea del nord. Lo ha fatto, ha poi spiegato Tillerson, soltanto per farsi capire bene dalla Corea del nord. Ma questa disconnessione è piuttosto naturale per il suo incarico, è chiamato a fare da cuscinetto fra le decisioni del presidente e il mondo esterno. Basta pensare al suo predecessore, il povero John Kerry, mandato a spiegare le ragioni per attaccare la Siria nel settembre 2013 e poi smentito con i fatti dal presidente Obama.