L'eccezione democratica del Kenya messa alla prova da Odinga
Sono 24 le vittime accertate degli scontri dell’ultima settimana, ma la maggior parte del paese è tranquilla e il presidente Kenyatta invita alla riconciliazione
Roma. Il sentimento dominante in Kenya nelle ultime ore è quello dell’attesa: con un misto di paura e tensione si aspetta infatti domani, quando Raila Odinga, leader dell’opposizione della National Alliance (NASA), sconfitto nelle elezioni presidenziali di martedì scorso, annuncerà “la via da seguire”. È quanto ha promesso ieri ai suoi simpatizzanti, rompendo il silenzio a un giorno e mezzo dalla proclamazione dei risultati ufficiali, cha hanno sancito la vittoria del presidente uscente Uhuru Kenyatta con il 54,27 per cento dei voti.
Nonostante i numerosi appelli internazionali alla calma e all’uso delle vie legali per contestare i risultati elettorali, Odinga ha usato toni poco concilianti. Parlando sullo sterrato di una piazza di Kibera, uno slum di Nairobi, ha paragonato la situazione del paese a quella dell’Iran al tempo dello Scià, e ha invitato a scioperare nella giornata di oggi come segno di lutto “per chi è stato ucciso dagli squadroni della morte” del partito di Kenyatta. “Non abbiamo ancora perso”, ha aggiunto.
“Oggi è il giorno del signore e la bidonville è calma. Noi aspettiamo le indicazioni di Raila”, hanno detto ai giornalisti presenti i sostenitori di Odinga: “Se ci dirà di restare a casa, ci rinchiuderemo. E se ci dirà di andare a combattere, caricheremo. È nostro padre”. Dichiarazioni che dimostrano quanto sia forte l’influenza del settantaduenne capo storico dell’opposizione, che oggi in un’intervista al Financial Times ha detto che non si ricandiderà alle prossime elezioni e che presto fornirà “prove inconfutabili” dei brogli.
Tuttavia, Odinga sembra con le spalle al muro: se rimarrà fermo nella decisione, annunciata dal suo braccio destro James Orengo, di non impugnare il risultato del voto davanti alla Corte suprema – come fece nel 2013 quando il suo ricorso fu respinto – il 29 agosto Kenyatta si insedierà ufficialmente. La scelta di fare appello a uno sciopero generale sembra dunque essere un modo per guadagnare ancora un po’ di tempo e capire qual è la sua forza reale nel paese.
Infatti, nonostante le violenze dell’ultima settimana, gran parte del Kenya rimane tranquillo – anche per la presenza sul terreno di 150 mila soldati, la più grande operazione di sicurezza nella storia del paese – e la maggior parte della popolazione non sembra condividere le accuse di Odinga dopo un voto a cui ha partecipato il 78 per cento degli iscritti alle liste e che tutti gli osservatori hanno definito trasparente. In un paese in cui la politica è ancora fortemente influenzata dall’appartenenza tribale, l’etnia Luo – alla quale appartiene Odinga, e che è sempre stata esclusa dalla gestione del potere – è stata l’unica a manifestare, scontrandosi contro le forze di polizia e in alcuni casi con i simpatizzanti di Kenyatta, membro dell’etnia Kyukyu: i principali esponenti degli altri gruppi etnici hanno invece mantenuto una posizione attendista.
Gli scontri erano iniziati dopo che Odinga, mercoledì, aveva rifiutato l’esito del voto definendolo “una frode”, e il loro bilancio resta incerto: la Commissione nazionale keniana per i diritti umani (KNCHR) sabato ha detto che i morti accertati sono 24: tra essi, una bambina di 9 anni uccisa da un proiettile vagante nello slum di Mathare, a Nairobi. Comunque, le violenze – avvenute in alcune bidonvilles di Nairobi e Kisumu, roccaforti di Odinga – non possono per ora essere paragonate a quelle scoppiate dopo le elezioni del 2007, che coinvolsero tutte le province provocando almeno 1100 morti e 600 mila sfollati.
Di fronte a un’opposizione che agita lo spettro delle armi, a partire da venerdì sera Kenyatta ha assunto il ruolo del pacificatore: “Non siamo nemici, siamo cittadini della stessa Repubblica. Le elezioni vanno e vengono, il Kenya è qui per restare”. Se riuscirà a mettere a tacere i sospetti di brogli e a evitare una repressione sanguinosa in caso di nuovi scontri, il presidente potrà consolidare la sua posizione e quella del paese nello scacchiere dell’Africa orientale. Il Kenya è infatti un’eccezione democratica circondata da paesi falliti come Somalia e Sud Sudan o dittature sanguinose come Etiopia, Ruanda o Burundi. E inoltre ha un’economia in pieno sviluppo, soprattutto nei settori tecnologici e infrastrutturali: negli ultimi quattro anni è il pil è cresciuto in media del 5,3 per cento, anche se la corruzione resta endemica e le disuguaglianze sono ancora fortissime.