Suprematisti bianchi durante gli scontri Charlottesville (foto LaPresse)

Perché sale la schiuma d'America

Giuliano Ferrara

L’onda suprematista che ha determinato Trump minaccia di soffocare la geniale alchimia della democrazia americana. Ma è reazione alla correttezza politica che ha inghiottito l’altra metà (dem) del paese. Niente soluzioni in vista

L’onda di reflusso porta schiuma, schiuma nera, sporca, contaminante. Così in Virginia, nucleo mitico e storico della Repubblica americana a partire dall’insediamento coloniale inglese, in una città che è a un tiro di schioppo da Washington, una banda organizzata, esagitata e armata di suprematisti bianchi, razzisti, violenti, ha ingaggiato sabato 12 agosto uno scontro di piazza con la folla protestataria di neri afroamericani e alleati bianchi che difendevano la prospettiva di sbarazzarsi della statua del generale confederato Robert Lee. Una ragazza è stata travolta da una macchina deliberatamente indirizzata allo schiacciamento del nemico, guidata da un fanatico con una fisiognomica psicologicamente deforme fin troppo riconoscibile. Tutto era riconoscibile, in quella vampata di bestialità politica e di fanatismo, in quella coda grottesca e mortuaria della guerra civile americana. E Trump, presidente degli Stati Uniti, capo di una base estremista e intollerante, ha fatto in modo di non riconoscere, con la tecnica dell’elusione e dell’equidistanza, quello che era chiaramente visibile. Non è così difficile capire quello che è successo, e allarmarsene in misura straordinaria. Più difficile è capire come e perché la schiuma sia salita in superficie, abbia determinato la più losca elezione presidenziale della storia americana e minacci di soffocare la geniale alchimia costituzionale dei poteri in equilibrio, a tutela di un modo di vita democratico e liberale, che è stata la caratteristica fondativa degli Stati Uniti. Mentre i soliti sociologi di pronto uso ci spiegano e rispiegano le famose radici del fenomeno Trump, e della schiuma che si porta appresso, e insistono (a) nonostante la disoccupazione al 4,13 per cento, (b) nonostante l’uscita dell’America dalla recessione e un tasso di sviluppo accettabile dall’anno successivo alla grande turbolenza del 2008, (c) nonostante i fallimentari sforzi elegiaci per bollare l’american carnage riscattato dal decisionismo trombone e inefficace di un gruppo che viene dall’oscurità del doppiogiochismo e da tecniche televisive e social d’impronta totalitaria; mentre si combatte con la demenza noiosa e sociologica, uno studioso intelligente di parte liberal, Mark Lilla, tenta un’analisi di cui si deve tenere conto.

 

Dice Lilla che all’inizio era: il personale è politico. Poi è il politico che è diventato personale. La sinistra liberal come progetto collettivo, come controbilanciamento di una destra neoliberista che aveva trovato in Reagan e nei Bush una espressione istituzionale, politica e di immaginazione del futuro, è scomparsa o si è fatalmente indebolita. La cultura del piagnisteo, di cui profeticamente Robert Hughes ci aveva avvertito in anticipo, ha prodotto la politica dell’identità. Non in senso europeo, la nazione, il suolo, il sangue, e balle varie, ma all’americana, in versione politicamente corretta. Niente vale il mio impegno politico se non parto da basi personali, sono gay, transgender, sono un universitario e un umanitario, frequento i college, ho una scala di valori che non permetto a nessuno di mettere in discussione, sono pregno di feticci anticolonialisti e antimperialisti, sono pacifista, imbarco il dolore del mondo e lo faccio mio, sono donna, sono minoranza etnica, sono la diversità che è costituita da mille identità frammentate tutte al servizio di un segmento personale della politica capace di riflettere uno scontro di individualismi dove scompare il senso della rotta politica, la costruzione di un’ipotesi che sia discutibile con l’avversario, di una prospettiva che coinvolga il bene collettivo o comune, che riguardi le istituzioni quali sono e non quali le ridisegniamo in base alla sensiblerie melliflua del piccolo gruppo o dell’Ego individuale. Di conseguenza, con questo tradimento del soggetto politico-sociale tradizionale della politica liberal, solo i Repubblicani, e in modo sempre più malaccorto, fino alla demenza trumpiana dopo la stagione dei tea party, hanno mantenuto un nesso a modo loro con il destino della politica come arte di unire forze sociali entro un blocco significativo e produttivo di governo delle contraddizioni. I liberal hanno ceduto il campo, hanno smesso nei fatti di riconoscere la legittimità della nozione di popolo e destino comune, e la presidenza Obama, ma questa non è farina del sacco di Lilla, è una mia opinione, ha purtroppo coperto questo processo con una inesausta chiacchiera retorica, così si è fatta dimenticare e rigettare nelle forme più scabrose, fino al birtherism e alla schiuma oggi emersa, dai bassifondi dell’America e da grandi masse di uomini comuni trainati dagli idoli di quei bassifondi.

 

Charlottesville può ben essere un episodio, piuttosto che il paradigma di una nuova fase, eppure l’itinerario che porta a una Casa Bianca restituita alla decenza passa per una ricostruzione di qualcosa che si è perduto in una generazione, o anche più, di smemoratezza e di abbandono della base di un impegno a discutere senza esclusivismi corretti, a stipulare compromessi  accordi, a fare insomma politica nel senso più solido e alto del termine, ripristinando un reciproco riconoscimento di legittimità che è scomparso a favore di questa polarità inaudita, becera e faziosa, tra i valori personali di una galassia individualista ipercorretta e i criteri di vita tradizionali del popolo, i people contro the people.

 

La faccenda è veramente complicata. Non basta, come doveroso, fare appello al senso di sé del Grand Old Party, stimolare a uscire in campo aperto le forze conservatrici che sono stordite dall’esproprio trumpiano del loro stesso terreno esistenziale, a vantaggio di una confusa e pericolosissima avventura in cui perfino la retorica nucleare serve a farsi spazio nella mediatizzazione della guerra ipotetica. Non basta normalizzare linguisticamente il non normalizzabile, l’anomalo assoluto, cercando di non farsi ingombrare il cervello da Trump e dalla sua impostura, cercando di recuperare nel privato, dunque di nuovo nel personale, uno spazio di vita meno afflittivo (è la tesi di David Brooks e altri). Non basta. Serve, e non siamo alle viste di questo processo, nemmeno agli inizi, sbarazzare il campo dalle mitologie correttistiche, anche nella forma più tradizionalmente ideologica del sandersismo, e rifare da capo a dodici il Partito democratico, senza il cui contraltare ci sono poche speranze anche per il Partito repubblicano.

 

In Francia gaullisti e socialisti sono alla frutta, ai margini, soppiantati da un prodigioso fenomeno creativo prodottosi al centro del sistema al di là di destra e sinistra fatalmente invecchiate. Ma sono forze dirimenti di una Repubblica fra le tante, la V, mentre la bipolarità progressista e conservatrice americana, su una comune base di libertarismo individuale, non è una variante storica fungibile, è la Repubblica americana, è la sua essenza più che bicentenaria, è la Costituzione e la Dichiarazione di Indipendenza, è la prassi e la procedura praticamente uniche al di là dei cambiamenti di facciata e di nomenclatura. Forse anche Trump si rivelerà un episodio, anziché un paradigma, ma è la spiegazione dell’orrore di Charlottesville e in pari tempo il suo dimensionamento su una scala mondiale.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.