Così la Russia intensifica la presa sul petrolio del Venezuela
La compagnia energetica del Cremlino Rosneft s'infila in lucrosi progetti estrattivi. La relazione tra Putin, Chávez e Maduro
Roma. “Sono gli Stati Uniti che montano il caos in Venezuela in modo da impadronirsi del suo petrolio”, è il mantra che ripetono Maduro e i suoi sostenitori (qualcuno, anche in Italia). Nel frattempo sul greggio venezuelano sta invece mettendo le mani la Russia. E’ stata la stessa Rosneft a rivelare che dal 2006 ha prestato al regime di Caracas almeno 6 miliardi di dollari – ma se si conta tutto quello che è arrivato dalla Russia, prima a Chávez e poi a Maduro, si arriva a 17 miliardi, circa il triplo. L’attrazione fatale iniziò quando lo stesso Hugo Chávez si rivolse a Vladimir Putin per ottenere forniture militari, dopo che Washington gli aveva rifiutato i pezzi di ricambio per gli F-16 dell’aviazione militare venezuelana. Ne venne un accordo da 4 miliardi con cui si rifornì di aerei da combattimento Sukhoi, elicotteri, carri armati e cannoni. Ma il pagamento fu fatto in petrolio, e l’“incasso” fu affidato a Rosneft, che iniziò a stabilire così contatti intensi con la società petrolifera di stato Pdvsa e a introdursi negli affari del Venezuela.
L’ultimissima elargizione di cui si è saputo è stata una tranche da un miliardo di dollari che Mosca ha dato a Maduro in aprile: un versamento di cui le esangui casse del governo di Caracas avevano un bisogno disperato. Secondo quanto trapelato da un funzionario di Pdvsa, in almeno un paio di recenti occasioni è stato proprio questo denaro russo a salvare il Venezuela dal default con i creditori. Non solo paesi e imprese occidentali, anche la Cina è ormai sempre più riluttante a buttare soldi nel pozzo senza fondo venezuelano. La Russia di Putin, però, agisce in base a considerazioni non economiche, ma geostrategiche. In cambio di questi versamenti – è un’altra indiscrezione – alla Rofsnet sarebbero state offerte partecipazioni in almeno nove importanti progetti petroliferi. Cinque di questi sarebbero nella Faja dell’Orinoco: sede di una riserva scoperta di recente che è tra le più importanti del pianeta, anche se ha l’handicap di essere composta da petroli pesanti di difficile lavorazione. Altri tre sarebbero nel Lago di Maracaibo, e l’ultimo nel Golfo del Paria. In cambio di un prestito da 1,5 miliardi la Rofsnet ha anche ottenuto dalla Pdvsa il 49,9 per cento della proprietà della Citgo: sussidiaria negli Stati Uniti che si occupa di raffinazione e distribuzione. Dalla Citgo è arrivato un contributo da mezzo milione di dollari per la festa d’insediamento di Trump, alimentando così la polemica se il “dono” arrivasse da Maduro o da Putin. Ma adesso la Rosneft starebbe cercando di scambiare questa quota con altri asset.
Secondo documenti della stessa Pdvsa, i pagamenti in petrolio a imprese cinesi e russe in cambio di prestiti arrivano ormai a 735 mila barili al giorno: il 42 per cento dell’1,75 milione di barili al giorno dell’attuale export venezuelano. La sola Rosneft in questo momento già rivende 225 mila barili di petrolio venezuelano al giorno: il 13 per cento di tutto l’export di greggio dal Venezuela. Da una parte, la Russia entra così con decisione nel “cortile di casa” degli Stati Uniti. Dall’altra, attua una strategia di diversificazione che le può anche servire per aggirare le nuove sanzioni americane sulla Crimea. Nella stessa linea va probabilmente anche inserita l’ultimissima decisione di Rosneft di nominare tra i direttori indipendenti del suo board anche Gerhard Schröder, l’ex-cancelliere socialdemocratico tedesco. Che, peraltro, già subito dopo aver lasciato nel 2005 il governo era stato nominato sempre da Rosneft presidente del consorzio Nord Stream: incaricato di costruire un gasdotto per collegare la costa russa nella regione di Vyborg alla costa tedesca nella regione di Greifswald passando per il mar Baltico.