Il dire e disdire di Trump è una pantomima nera da esorcizzare
Perché quello di The Donald non è un ironico smontaggio della politica, arte sublime del Cav., ma il parlare di un demagogo imbizzarrito che scherza col fuoco
Dire e disdire, folleggiare con opinioni e verità, è un’arte propria dell’uomo di stato, come si dice oggi, postmoderno. La scienza della politica, con basi classiche come la gravitas latina, le parole che pesano, che s’incatenano, che guidano, che edificano, è in disuso. Noi abbiamo avuto per molti anni un capo dell’esecutivo, e idolo di una buona metà del paese, che snocciolava il suo abbecedario dell’improntitudine gaia con grazia e umorismo. La gravità del dire si era trasformata in una insincera e collosa lingua di legno, e Berlusconi ha riscritto il glossario esausto della politica responsabile cosiddetta, con punte puerili e grottesche, come no, ma nel segno evidente di una riconciliazione degli italiani con la realtà. La nipote di Mubarak – culmine della mascherata e della parabola iperrealista del Cav. – fu un modo di difendersi dall’inquisizione, e di affermare i diritti del privato, dunque di riaffermare contro i sepolcri imbiancati l’essenza di quella “libertà italiana che non ha l’eguale in nessun altro paese del mondo”, parole di Alessandro Dumas nel “Conte di Montecristo”.
Donald Trump vive in un altro paese del mondo, appunto, che l’inquisizione non sa nemmeno cosa sia, che si fonda sulla libertà codificata di parola e sul riconoscimento religioso degli eguali diritti degli esseri umani in quanto creature. Qui è questione di pensiero dei Padri costituzionali, non di trappole politicamente corrette. Un presidente che elude (“hanno fatto a botte: too bad”) poi dice (“i suprematisti bianchi sono unamerican”) eppoi disdice (“gli antirazzisti sono dei violenti e il senso di Charlottesville è quello di una rissa”) non è un parlatore leggero, umoristico e autoironico, uno che disincanta la lingua di legno, è un uomo che gioca pesante, un demagogo imbizzarrito che scherza col fuoco, è il Berlusconi fetido che su queste cose non ha mai scherzato.
Il Cav. crea un polo conservatore nel paese che non aveva mai conosciuto l’alternanza di forze diverse alla guida del governo, e le sue mattane ultraliberali sono un tentativo di riunificare un popolo riottoso, malfidato, educato alla faziosità ideologica combinata col trasformismo dei regimi. Trump distrugge il polo conservatore, non esprime i diritti del privato e del common man, come dice, bensì privatizza e familizza la Casa Bianca e ne fa il palcoscenico di una temibile farsa verbale, dividendo l’America e condannando sé stesso a una condizione di minoranza irritabile, ineffettuale, priva totalmente di un progetto politico sensato. Tra i due c’è tutta la differenza tra uno che ha prodotto la televisione e uno che ne è il prodotto.
Mi piacerebbe scherzare su Trump e ricorrere ai paradossi d’un tempo. Ma non ci riesco. Non viene. Uno che tuìtta il nucleare e il razzismo suprematista bianco alla stessa stregua, uno che mette Washington e Jefferson nel calderone dei confederati e della nostalgia sudista, uno che ha dalla sua fior di commentatori e analisti disposti a ridiscutere il tema della schiavitù non è il disincanto americano, alla maniera dell’italiano eccentrico e mattocchio Berlusconi, è un mago dell’impostura, un artista di una pantomima nera che ha bisogno di un grande esorcismo.