Contro il jihad può rinascere l'Europa
Il caso di Barcellona ma non solo. L’islam fondamentalista e i nostri confini. Perché la sfida della lotta al terrorismo ci spiega che gli spiriti anti europeisti rappresentano una minaccia concreta per la sicurezza dei singoli stati nazionali
Tassello dopo tassello, tessera dopo tessera, ricostruzione dopo ricostruzione, il mosaico dell’attentato di Barcellona continua a offrire un numero sempre più considerevole di messaggi che vanno tutti verso un’unica e chiara direzione: contro un esercito offensivo come quello jihadista che anche in Europa combatte una guerra senza confini non si può rispondere schierando un esercito difensivo che fronteggia il nemico restando però intrappolato tra confini che non esistono più. Affrontare il dramma del terrorismo islamico concentrandosi solo sulla sicurezza o sull’intelligence, come se l’esercito del jihad fosse solo un problema di ordine pubblico e non prima di tutto un problema di ordine culturale, è un errore grave e sciatto che molti commettono e che spesso ci porta a scappare dalla realtà e a non vedere quali sono le vere radici da cui nasce l’orrore islamista. Ma la sicurezza, in una fase storica come quella in cui viviamo, dove la difesa dei nostri confini rappresenta un processo che non può che essere complementare rispetto alle strategie adottate per radere al suolo le fondamenta militari del jihadismo islamista, naturalmente ha una sua importanza strategica evidente ed è più comprensibile chiedersi, all’indomani di un attentato, se nei meccanismi di difesa dei nostri paesi c’è qualcosa che non ha funzionato, qualcosa che si poteva fare meglio, qualcosa che si poteva evitare.
Ogni attentato ha una storia a sé e una sua fase di gestazione unica, anche se spesso le modalità di azione si assomigliano le une con le altre e non sono altro che dei tentativi di esportare in Europa le stesse tipologie di attacchi – coltelli, camion sulle folle, attentati in luoghi simbolo della democrazia – portati avanti per una vita contro Israele. Ma l’attentato di Barcellona, se ci si ragiona bene, a mente fredda, ha una storia particolare e contiene alcuni dettagli che ci permettono di dire che in un contesto come quello in cui viviamo oggi gli istinti sovranisti e separatisti, ovvero tutto ciò che tende ad alimentare uno scontro e non una collaborazione tra istituzioni che in teoria dovrebbero lavorare in un clima di complementarietà assoluta, non sono solo un errore politico: sono anche un rischio per la sicurezza dell’occidente. A Barcellona, nei giorni precedenti e successivi all’attentato sulla Rambla, la cattiva comunicazione tra la polizia regionale, i Mossos d’Esquadra, e la polizia nazionale, gestita dal ministero dell’Interno, dovuta a ragioni politiche legate alle tensioni separatiste della Catalogna, ha avuto un impatto significativo sulla sicurezza nazionale.
La Cia, come ha raccontato tre giorni fa il quotidiano spagnolo El Periódico, aveva avvertito già due mesi fa i Mossos d’Esquadra sul rischio di un attentato a Barcellona, inviando con un certo anticipo sui tempi un’informativa dettagliata alla polizia regionale spagnola sui rischi di un attacco proprio sulla Rambla ma nonostante questo la polizia locale ha scelto di non adottare misure di sicurezza straordinarie, capaci di prevenire scene simili a quelle già viste sulla Promenade di Nizza. Il momento in cui la divaricazione e la scarsa collaborazione tra le due forze di polizia è risultata in modo più evidente, poi, si è registrato poche ore prima dell’attentato sulla Rambla, quando un’esplosione, con tanto di vittima, avvenuta in un appartamento sul confine meridionale della Catalogna, ad Alcanar, 200 km da Barcellona, è stata liquidata come una semplice tragedia causata da una fuga di gas. In realtà, come tutti sappiamo, quella che la polizia regionale considerò un incidente domestico era qualcosa di più: era un’esplosione dovuta al fatto che gli stessi terroristi che poche ore dopo avrebbero dato vita a una mattanza sulla Rambla stavano cercando di preparare, giocando con 120 bombole di gas, un ordigno per organizzare un grande attentato. La tensione tra la polizia catalana e la polizia nazionale, come ha ricordato ieri Repubblica, ha portato infine a un’altra particolare forma di cortocircuito: per evitare di creare una crisi istituzionale con il governo locale, che come è noto promuove da tempo un referendum per proclamare l’indipendenza della Catalogna, negli ultimi tempi la polizia nazionale ha scelto di non forzare la mano sulle questioni di sicurezza e non ha mai portato il livello di allarme al suo massimo, anche per evitare un dispiegamento di forze armate per le strade di una città come Barcellona dove i militari a servizio del governo nazionale rischierebbero di essere visti quasi come delle truppe di invasione. Le divaricazioni tra le due forze di polizia sono emerse anche nei giorni successivi all’attentato quando il ministro dell’Interno del governo catalano, Joaquim Forn, ha contestato pubblicamente una serie di dichiarazioni fatte a poche ore dall’attentato dal ministro dell’Interno del governo Rajoy, Juan Ignacio Zoido. Ma al di là delle polemiche politiche il microcosmo spagnolo rappresenta evidentemente la spia di un problema più grande con il quale l’opinione pubblica europea, e la sua classe politica, dovranno fare in fretta i conti. E il problema è quello che segnalavamo all’inizio del nostro ragionamento: di fronte a una guerra che i jihadisti combattono senza badare più a quali sono i confini dell’Europa, i confini fittizi dell’Europa non possono diventare un ostacolo per garantire la sicurezza del nostro continente. E la domanda di fronte alla quale si sono trovati in questi giorni i catalani di Barcellona è la stessa domanda di fronte alla quale si trovano oggi gli spiriti sovranisti che aleggiano in buona parte del nostro continente: gli stati nazionali, o addirittura i micro-stati nazionali, possono davvero pensare di difendersi dal terrorismo senza mettere tutte le proprie forze al servizio della stessa causa comune? Detta ancora meglio: la grande partita della lotta al terrorismo non è lì a dirci che gli spiriti antieuropeisti rappresentano una minaccia concreta per la sicurezza dei singoli stati nazionali?
Il filo di questo discorso ci porta a concludere il nostro ragionamento con un appunto non secondario che riguarda un tema che affiora periodicamente all’indomani di ogni attentato: quando si parla di lotta al terrorismo, cos’è che non funziona in Europa? La prima risposta è semplice e lineare e riguarda l’assenza di una difesa comune che possa marciare di pari passo con i percorsi della Nato e possa permettere agli eserciti del nostro continente di difendere l’Europa, e di intervenire laddove si individua la presenza di una minaccia per l’Europa, senza affidarsi necessariamente alla gestione dei singoli eserciti nazionali. La seconda risposta è più complessa e riguarda un tema che spesso viene ignorato e che ha invece una sua dimensione cruciale: la condivisione automatica delle banche dati relative all’antiterrorismo che ciascuno stato possiede. Come può testimoniare un qualsiasi ministro dell’Interno di un qualsiasi paese dell’Unione europea, oggi su questo fronte non esiste un’interconnessione automatica e non esiste una banca dati universale all’interno della quale poter condividere in tempo reale tutte le informazioni in possesso delle forze dell’ordine sui temi legati all’antiterrorismo. Alcuni stati, periodicamente, compresa l’Italia, tentano con costanza di fare passi in avanti su questi temi e tentano cioè di affermare un principio sacrosanto che riguarda la necessaria cessione di uno spicchio di privacy di ogni cittadino d’Europa a fronte di un contesto di maggiore sicurezza potenziale. L’Europa da qualche tempo si è dotata anche di un commissario alla Sicurezza, che oggi si chiama Julian King. Ma nonostante questo, i molti ostacoli posti dagli ordinamenti nazionali rendono impossibile allo stato attuale non solo la presenza di un Fbi europea e di un’intelligence comune anti jihad ma anche la possibilità di mettere facilmente insieme tutti i dati che ciascun paese custodisce relativamente a un tema che nei prossimi mesi sarà cruciale: i profili e le caratteristiche dei 25-30 mila soldati di dio, i così detti foreign fighters, che fanno parte della più grande legione straniera mai conosciuta in epoca moderna. In medio oriente l’esercito jihadista perde ogni giorno pezzi grazie alla collaborazione – tardiva ma finalmente efficace – degli eserciti nazionali guidati dalla Nato. Ma l’arretramento dell’Isis sul “suo” territorio è destinato a creare un effetto a catena al centro del quale ci sarà il ritorno dei foreign fighters nel nostro continente (in Italia, nel 2017, nei primi sette mesi dell’anno, i foreign fighters monitorati sono stati 125, 15 in più rispetto allo scorso anno – anche se il numero di quelli effettivamente tornati in Europa è di 22, contro i 17 del 2016). La grande sfida dei prossimi mesi delle intelligence europee sarà proprio questa: evitare la saldatura tra i combattenti di ritorno dalla Siria e le micro cellule jihadiste che esistono in Europa. La Spagna ci ha dimostrato che le idee sovraniste sono dannose per la sicurezza nazionale. E mai come in questo momento dovrebbe essere chiaro a tutti che su alcuni temi non esiste un interesse nazionale che possa prevalere sull’interesse europeo. La lotta al terrorismo può essere il vero terreno su cui l’Europa può tracciare i suoi confini. Conviene non perdere l’occasione. E soprattutto conviene non perdersi dietro la cialtroneria dei sovranismi nazionali.