Si vota in Angola, dove il mito del partito-Stato non basta più: serve lo sviluppo vero
Il paese oggi alle urne. Dopo 38 anni Dos Santos si fa da parte (ma non troppo). Il favorito è Lourenço, dello stesso partito. Ma il popolo chiede un cambio di passo dopo il crollo dei prezzi del petrolio
Roma. Comunque vada, il 23 agosto 2017 sarà un giorno che l’Angola ricorderà: le elezioni di oggi segneranno infatti, almeno formalmente, la conclusione del lungo regno di José Eduardo Dos Santos, il “compagno numero uno” che guida l’ex colonia portoghese dal settembre del 1979. Eroe della lotta per l’indipendenza, il settantaquattrenne presidente del partito-stato MPLA (Movimento popolare di liberazione dell’Angola) ha preso volontariamente la decisione di non candidarsi, annunciandola lo scorso febbraio: cosa di per sé notevole in un continente abituato a esempi come quello di Robert Mugabe, che a 93 anni regge con pugno di ferro i destini dello Zimbabwe.
Dos Santos ha fatto la sua prima apparizione in campagna elettorale soltanto sabato scorso, all'ultimo appuntamento organizzato dal MPLA alla periferia della capitale Luanda, per sostenere il candidato che ha scelto come suo successore: il ministro della Difesa Joao Lourenço.
Generale in pensione, Lourenço ha 63 anni e un curriculum impeccabile. Anche lui veterano della guerra di liberazione, ha occupato ruoli importanti all’interno del partito prima di essere messo ai margini per quasi dieci anni: Dos Santos aveva tentato di imporre come suo sostituto il figlio José Filomeno, scontrandosi però con la resistenza della vecchia guardia del MPLA.
Lourenço “sarà eletto prossimo presidente della Repubblica d’Angola”, ha detto ai quadri e ai militanti Dos Santos con la sua voce monotona, in uno scenario da show televisivo che racconta bene l'evoluzione del MPLA dal marxismo-leninismo degli inizi al capitalismo autocratico di oggi: mega schermi, giochi di luce, auto di lusso al servizio dei membri del comitato centrale.
Anche se dal 1991 – in seguito ai primi accordi che tentarono di mettere fine alla guerra civile – in Angola vige il multipartitismo, la successione a Dos Santos sarà molto probabilmente un affare interno al MPLA, che controlla il paese da quando nel 1975 fu raggiunta l’indipendenza. Il conflitto con l’UNITA (Unione nazionale per l'indipendenza totale dell'Angola), un’altra milizia di liberazione nata maoista e poi diventata conservatrice, scoppiò quasi subito per terminare solo nel 2002, quando il suo leader, Jonas Savimbi, fu ucciso e la milizia si trasformò nel principale partito di opposizione.
In questi decenni, il MPLA è diventato un partito-Stato, occupando tutti i gangli del potere e gestendo il paese in modo autoritario. Al centro del sistema c’era Dos Santos, l’unico a poter manovrare le leve dei diversi apparati: partito, governo, esercito, servizi segreti. Immaginare una sconfitta del suo delfino sembra perciò inverosimile, nonostante la situazione economica molto difficile che minaccia l’egemonia del partito.
Il MPLA, ha spiegato al Monde Ricardo Soares de Oliveira, docente ad Oxford e uno dei più esperti conoscitori dell'Angola, “domina l’economia angolana, controlla i media e ha un'influenza considerevole sulla società", però “ha profondamente deluso” le aspettative della popolazione “e non riesce più a mobilitare come un tempo. La domanda è: vincerà con una maggioranza forte? Senza dubbio no, a meno che le elezioni non vengano manipolate”. Il partito “controlla il paese abbastanza per vincere di nuovo, ma fino al giorno delle elezioni è difficile capire quanto alta è la disaffezione”.
Per questo i pochi sondaggi diffusi vanno presi con molta cautela: alcuni assegnano al MPLA il 61 per cento dei voti, contro il 72 che gli garantì la vittoria cinque anni fa, altri addirittura il 38. Risultato che sarebbe una disfatta: Lourenço diventerebbe comunque presidente, ma il MPLA non avrebbe la maggioranza in Parlamento. La Costituzione approvata nel 2010 prevede che il capolista del partito che prende la maggioranza dei voti, anche se solo relativa, diventi automaticamente presidente della Repubblica e capo del governo. Una norma che le più importanti forze di opposizione si sono impegnate a cambiare, qualora dopo il voto le loro forze fossero maggioritarie in Parlamento.
Per recuperare il sostegno di una popolazione delusa, Lourenço si è impegnato a diversificare l’economia – quasi totalmente incentrata sullo sfruttamento del petrolio – , a favorire gli investimenti stranieri e a lottare contro la piaga della corruzione: una battaglia, quest’ultima, destinata a scontrarsi con gli interessi della classe privilegiata arricchitasi a dismisura all’ombra di Dos Santos. I suoi figli, Isabel e José Filomeno, ne sono la perfetta incarnazione: la prima – che Forbes ha stimato essere la donna più ricca d’Africa – guida la compagnia petrolifera nazionale Sonangol, il secondo è presidente del fondo sovrano dell’Angola, che ha un capitale di circa 4,3 miliardi di euro.
Il vero punto debole dell’MPLA è la pessima situazione economica del paese, che l’anno scorso ha visto il suo prodotto interno lordo scendere del 3,6 per cento, e dove la disoccupazione è ufficialmente al 20 per cento e l’inflazione al 45. L’Angola è il secondo produttore africano di petrolio, dalla cui esportazione trae tre quarti delle sue entrate: fino al 2014, il boom del prezzo del greggio ha trainato una crescita fenomenale, i cui proventi però sono stati investiti solo in minima parte per sviluppare il settore industriale e per modernizzare l’agricoltura. Quando nel 2015 le quotazioni si sono dimezzate, il paese è entrato in una crisi di cui non si vede ancora la fine.
La ricostruzione dopo la guerra civile, poi, si è trasformata presto in una frenesia immobiliare che ha reso Luanda una delle città più care al mondo, in cui i grattacieli scintillanti mascherano le bidonvilles. E ha prodotto opere pubbliche faraoniche – spesso costruite da imprese cinesi – che in diverse occasioni hanno rivelato gravi difetti e hanno avuto un impatto minimo sul miglioramento della vita della maggioranza della popolazione, specialmente dei milioni che ancora vivono nelle campagne.
“Il MPLA non ha più altra strada che uno sviluppo vero”, ha detto ancora Oliveira. Gran parte della popolazione ha meno di 25 anni: non sono più sensibili alla mitologia del partito. Vogliono un lavoro, questa è la bomba a scoppio ritardato che dovrà gestire Lourenço. La sua unica scelta è “smembrare in modo pacifico l’impero economico Dos Santos. Ma può darsi che non ci riuscirà, perché il sistema è resistente”.
Quella a cui è chiamato Lourenço – che proviene dalla vecchia guardia del MPLA, e ha un modo di fare calmo e metodico che risente dei suoi studi nell’URSS – sembra quindi essere una missione quasi impossibile: cambiare le cose mantenendo la continuità del partito-Stato, che ne ha un bisogno disperato per sopravvivere.
Ma l’ombra di Dos Santos non si allontanerà di molto. Fino almeno al 2018 il presidente uscente resterà alla guida del partito, e intanto si è garantito un’ipoteca sugli altri centri di potere: a luglio infatti il Parlamento ha approvato una legge che impedisce al suo successore di cambiare i vertici dell’esercito, della polizia e dei servizi segreti, tutti confermati ai loro posti per i prossimi otto anni.