Non toccate la statua di Colombo, con lui iniziò l'età che portò ai diritti
Il sindaco di New York si legga i diari del navigatore italiano
Qualche volenteroso potrebbe regalare a Bill De Blasio una copia de “La scoperta de l’America” di Cesare Pascarella. Il sindaco italoamericano di New York troverebbe forse, in questa silloge di sonetti dialettali del 1894, ispirazione su come regolarsi riguardo alla proposta di rimozione della statua di Cristoforo Colombo dalla piazza che gli è dedicata a Manhattan. Colombo infatti, ha spiegato una portavoce del municipio, è “figura controversa per molti cittadini, in particolare per i caraibici”; il sindaco le ha presto dato man forte twittando che “dopo i violenti fatti di Charlottesville, la città di New York condurrà tre mesi di revisione di tutti i simboli d’odio presenti nella città”. Prima di sancire se lo scopritore dell’America sia o meno da considerarsi razzista, De Blasio potrebbe leggere con profitto il ventinovesimo sonetto della raccolta, in cui i membri della ciurma di Colombo “veddero un fregno buffo co’ la testa / dipinta come fosse un giocarello, / vestito mezzo ignudo, co’ ‘na cresta / tutta formata de penne d’ucello. / Se fermorno. Se fecero coraggio: / -Ah quell’omo!- je fecero, -chi sete?- / -Eh,- fece, -chi ho da esse’? So’ un servaggio”.
Per quanto possano sbraitare le prefiche della correttezza politica, dai versi traspare non odio né contumelia ma ironia reciproca: il selvaggio è bonariamente (e surrealmente) consapevole di essere tale, tanto quanto gli esploratori sono persuasi a priori che si tratti di un uomo. Non è poco. Pascarella ricalca infatti la celebre pagina del diario di bordo di Colombo, il quale all’11 settembre 1492 registra l’avvistamento della terraferma assieme a quello di un indigeno completamente nudo. E’ segno che il territorio di cui sta prendendo possesso in nome del Re cattolico è marchiato dalla presenza di un altro da sé col quale bisogna fare i conti. Nella corretta prospettiva storica, l’arrivo di Colombo non è invasione ma riconoscimento. Se le periodizzazioni servono a qualcosa, può dirsi che questo 1492 dia inizio all’Età moderna in quanto ingenera il dibattito riguardo all’evenienza che gli indigeni, o selvaggi, possano essere considerati uomini; ne consegue necessariamente il dibattito su quali caratteristiche definiscano un uomo e siano sufficienti a renderlo tale, indipendentemente dal fatto che navighi su una caravella o saltelli mezzo nudo. I diritti umani sono nati qui.
L’immaginario del Medioevo era basato sul presupposto che l’uomo – fosse antico o contemporaneo, vicino o lontano – rispondesse a determinate specificità che lo rendevano indistinguibile da un qualsiasi occidentale; mentre le terre ignote dovevano essere popolate di creature mostruose (i blemmi, gli sciapodi e le altre fantasie di cui Umberto Eco popola divertito “Baudolino”) alle quali non poteva essere concessa dignità umana. Dopo Colombo è stato invece necessario giustificare che “quell’omo”, l’indigeno, discendesse da Adamo come tutti. Un tale dottor Roldan, a metà Cinquecento, identificava negli americani le dieci tribù disperse di Israele; Nicolas Fuller, nel 1618, suggeriva potesse trattarsi dei figli di Jafet; Jacques de Charron, nel 1621, proponeva che le città messicane fossero state costruite da antichi viaggiatori veneziani scomparsi per mare (sull’argomento fanno autorità gli scritti di Giuliano Gliozzi: “Adamo e il nuovo mondo”, 1977, e “Le teorie della razza nell’età moderna”, 1986). Il riconoscimento dell’umanità degli indigeni – grazie soprattutto a Bartolomé de Las Casas – fu la leva che nel giro di tre secoli avrebbe portato alla definizione dei diritti umani universali, culmine dell’Età moderna. Chi propone di abbattere la statua di Colombo fraintendendolo per portatore d’odio vuole assicurare al mondo un futuro pre moderno, in cui tutto ciò che è ignoto non è diverso ma inevitabilmente mostruoso.