Parata militare a Pyongyang. Foto LaPresse/Reuters

Rapiti per volontà di Kim

Giulia Pompili

Matrimoni, spie, disertori. La Corea del nord tra gli anni Settanta e Ottanta è un paese dai tratti romanzeschi e poco conosciuti. Un libro racconta la storia di Megumi

Qualche giorno fa due uomini dai tratti occidentali, vestiti con gli abiti tradizionali nordcoreani, si sono presentati davanti alle telecamere di Uriminzokkiri, una specie di canale online ufficiale del regime di Pyongyang, e hanno annunciato: “Nostro padre ha vissuto tra le braccia della Repubblica e ha ricevuto soltanto amore e cure dal Partito fino alla sua morte, all’età di 74 anni”. Sono i due figli di James Joseph Dresnok, soldato americano di stanza nella penisola coreana che nell’agosto del 1962, quando aveva appena ventuno anni e quando la guerra con il Nord era finita da quasi dieci anni, decise di attraversare il confine del 38° parallelo di sua spontanea volontà, e di aderire alla causa nordcoreana antioccidentale e anticapitalistica. Dresnok era l’ultimo disertore americano in Corea del nord ancora in vita. Nel video, a confermare la notizia che circolava da un po’ sulla morte del padre, è Theodore Ricardo Dresnok, detto Ted, in completo nero e con la spilla di Kim Jong-un appuntata sul petto, che ha trentasette anni e parla un coreano impeccabile. Il fratello più piccolo, James, di anni ne ha trentacinque, ed è un capitano dell’esercito nordcoreano. Proprio come il padre, anche i due discendenti di Dresnok da tempo fanno parte dell’imponente macchina della propaganda nordcoreana, e vengono reclutati per apparire nei film, negli spot antiamericani, ogni volta che c’è bisogno di un occidentale che “è passato dal lato giusto della storia”, come descrive Ted la decisione di suo padre di trasformarsi in un disertore. Tanto è vero che negli anni Sessanta Joe Dresnok in Corea del nord era un mito. E non era solo. Con lui c’erano altri cinque soldati americani, tra cui Larry Abshier, che fu il primo militare a passare dall’altra parte della zona demilitarizzata, nel maggio del 1962, e morto d’infarto nel 1983, e poi Jerry Parrish, morto nel 1998 a Pyongyang, ma soprattutto Robert Jenkins, l’unico a uscire dalla Corea del nord dopo quarant’anni dalla diserzione. Nel 2004 riuscì a raggiungere il Giappone. Quasi tutti intorno alla metà degli anni Settanta avevano avuto una parte in “Unsung Heroes”, uno dei film nordcoreani più famosi, un mattone di venti ore, uscito scaglionato in tre anni a partire dal 1978, che parla, va da sé, di una complicata storia spionistica ambientata a Seul durante la Guerra di Corea.

   

Come il padre, anche i due figli di Dresnok da tempo fanno parte dell'imponente macchina della propaganda nordcoreana

La storia di Dresnok e dei soldati americani che disertarono in Corea del nord è legata indissolubilmente a un’altra storia, quella dei rapimenti. Per anni Pyongyang ha portato avanti un programma che prevedeva il rapimento di occidentali, europei, asiatici, inconsapevoli pedine di un sistema che alimentava il regime. I rapiti servivano (servono ancora?) alla propaganda, ad addestrare le spie, a rivelare segreti, ad accoppiarsi tra loro. La storia più famosa è quella di Choi Eun-Hee, star del cinema sudcoreano, e del suo ex marito Shin Sang-Ok, uno dei più celebri registi asiatici dell’epoca. Furono rapiti dagli agenti nordcoreani a Hong Kong nel 1978 per ordine di Kim Jong-il. Tradotti a Pyongyang, furono costretti a mettere la loro arte al servizio del regime. Scapparono in modo rocambolesco nel 1986. Sulla loro storia Paul Fisher ha scritto un libro, “Una produzione Kim Jong-il”, pubblicato nel 2015, e l’anno successivo è uscito un documentario su di loro, “The Lovers and the Despot” (lo potete guardare su Netflix), diretto da Robert Cannan e Ross Adam. Ma oltre alla Corea del sud, i rapiti dalla Corea del nord furono soprattutto giapponesi.

  

“Ciao, Megumi. L’estate è arrivata in Giappone. E’ sempre più verde ogni giorno. I tuoi fiori preferiti stanno fiorendo dappertutto. Megumi, ti ricordiamo con tanto amore! Dove sei ora? Puoi prendere l’aria fresca, fuori, e sentire il vento? Sono passati quarant’anni di giorni senza vederti. La penisola coreana resta instabile. Non pensiamo ad altro che a te e ci domandiamo continuamente come stai. C’è questa espressione, ‘legami familiari’. Abbiamo gli antenati. Esistiamo. Siamo connessi con i nostri figli. Una linea senza fine è qualcosa che le persone non possono creare facilmente. E’ un dono del cielo. E’ davvero un regalo meraviglioso del quale siamo grati. C’era Megumi e c’erano i tuoi fratelli, Takuya e Tetsuya, un padre e una madre. Eravamo una famiglia normale, come qualunque altra famiglia in Giappone. Ora ci rendiamo conto davvero di quanto fossero piacevoli e felici quei giorni. Megumi, tu eri una ragazza con tanti amici. C’era sempre qualcuno che veniva a trovarti e costante era quel suono di voci vivaci. Poi, senza alcun sentore di quel che sarebbe accaduto, improvvisamente abbiamo smesso di sentire quelle voci. ‘Mamma, ti dirò tutto su di me’. E’ quello che hai detto a tua madre prima di scomparire. Dopo che sei svanita nel nulla come fumo, ogni giorno è stato un inferno. ‘Abbiamo sbagliato qualcosa come genitori?’, ci domandavamo. […] Non riuscivamo a capire la ragione della tua scomparsa, e abbiamo pianto spesso. Abbiamo sofferto. Abbiamo pensato alla morte. Per vent’anni non abbiamo saputo nulla su cosa ti fosse successo. Poi abbiamo saputo che eri stata rapita da agenti nordcoreani e che eri in Corea del nord. E’ stato come un fulmine a ciel sereno. Non avremmo mai immaginato che giovani giapponesi potessero essere portati via così, con un atto criminale da parte di un governo straniero. Ma penso che tu possa capire la nostra gioia quando abbiamo saputo che eri viva. Ora però sono trascorsi altri vent’anni dalla prima volta in cui abbiamo sperato di poterti rivedere. Tua madre e tuo padre stanno invecchiando. Non abbiamo più molto tempo. Vorrei fare ancora una volta lo stufato per te. Tua madre ha un sogno che vorrebbe realizzare. Sei scomparsa il 15 novembre del 1977. Quel giorno ti avevo preparato la cena, e ti stavo aspettando, saresti dovuta tornare a casa dopo il tuo allenamento di badminton. Mentre stavo facendo lo stufato e grigliando il pesce, ho pensato: devo preparare qualcos’altro. E a quel punto mi sono resa conto che non c’eri. Sono uscita fuori, al buio, e ho gridato per tutta la notte: ‘Megumi! Megumi!’. Sono passati quarant’anni da allora. Se avessi la possibilità di prepararti quello stufato che ti piaceva tanto, allora forse potrei essere in grado di dimenticare il momento in cui sei scomparsa e tornare a quando ero una giovane madre, a quando tu avevi solo tredici anni. Potrei riuscire a riconquistare tutto il tempo perso. E’ per questo che vorrei cucinare ancora per te. Ma sto invecchiando. E pure le mie abilità in cucina stanno peggiorando. Qualche volta penso che non sarei in grado di farti un pasto gustoso. Però potresti cucinare tu questa volta. […] Le vite dei rapiti sono sempre in pericolo. Come ripetiamo spesso, vorrei che i politici giapponesi affrontassero la questione con serietà. Recentemente un giovane americano è tornato nel suo paese dalla Corea del nord in un pessimo stato fisico ed è morto qualche giorno dopo. Non posso non pensare alla sua famiglia. Sono preoccupata del fatto che i bambini giapponese rapiti potrebbero avere lo stesso destino. […] Ci appelliamo continuamente al governo affinché salvi quei bambini. […] come ci ha detto il primo ministro Shinzo Abe, ‘i rapiti sono la questione più importante per il Giappone’. Il popolo giapponese crede alle sue parole”.

  

I soldati americani che avevano disertato insegnavano l'inglese, traducevano le notizie dai media occidentali e vivevano nella stessa casa

Questa lunga lettera è stata scritta da Shigeru e Sakie Yokota, e pubblicata qualche giorno fa sul giornale giapponese Sankei. Gli Yokota, oggi entrambi ultraottantenni, sono i genitori di Megumi, una ragazza che esattamente quarant’anni fa, quando aveva solo tredici anni, è stata portata via dagli agenti nordcoreani mentre tornava a casa. Di lei non si è saputo nulla per vent’anni, fino a quando il governo di Pyongyang ha ammesso che la ragazzina faceva parte dei cittadini giapponesi rapiti tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Megumi è stata scelta per caso, forse per sbaglio (dimostrava più della sua età, forse le spie non credevano di rapire una bambina). In ogni caso, da allora, gli Yokota sono diventati il simbolo di una storia spesso dimenticata in occidente, anche a causa di rapporti di forza e dei giochi politici tra Pyongyang e il resto del mondo.

  

"Per vent'anni non abbiamo saputo nulla su cosa ti fosse successo. Poi abbiamo saputo che eri stata rapita da agenti nordcoreani"

“Megumi aveva appena concluso l’allenamento di badminton, uno sport a cui s’era avvicinata da poco, rinunciando al balletto che l’aveva accompagnata durante tutta la sua infanzia. Nonostante fosse una novellina, le era stato riconosciuto del talento: aveva partecipato ai campionati studenteschi cittadini in coppia e, anche se si era classificata solo quinta, la città di Niigata l’aveva premiata come giovane promessa. Questa circostanza, invece di inorgoglirla, l’aveva messa in imbarazzo: ‘Perché hanno scelto me quando ci sono quelle che si sono classificate prime o seconde?’. La mamma, Sakie, racconta di averle proposto di accompagnarla a presentare le dimissioni dalla squadra dopo lo sfogo, ma Megumi aveva rifiutato sdegnosamente: ‘Ormai faccio la scuola media, non sta bene che tu venga con me. Parlerò io’. Tutto questo era accaduto soltanto il giorno prima. Il 15 novembre Megumi si era allenata regolarmente poco prima delle sei, era uscita dalla palestra della scuola assieme a due amichette. Nulla di strano: quel quartiere era un posto tranquillo, tutti si conoscevano, nessuno aveva segnalato qualcosa che destasse preoccupazione. Era una normale sera di un normale novembre. Sakie, mentre le tre studentesse lasciavano la palestra, stava cucinando. Al mattino aveva salutato la ragazza, che era andata via, come al solito, nella divisa scolastica portando la racchetta. […] Le tre ragazze erano state viste andar via dalla scuola dal custode: parlavano e ridevano come fanno le adolescenti. Avevano camminato assieme sul lato destro della strada e, in meno di cento metri, all’incrocio, la prima aveva svoltato a destra, per andare a casa. Erano rimaste in due. Dopo un’altra manciata di passi, la seconda aveva lasciato sola Megumi. L’aveva salutata e aveva varcato la porta della dimora di famiglia. Non più di centocinquanta metri dividevano a quel punto la ragazza dall’ingresso del cortile della sua casa di legno. Di certo aveva continuato a scendere lungo la strada fino a un incrocio, al quale avrebbe dovuto girare a sinistra. Proprio lì svaniscono le tracce. ‘In questo punto i cani poliziotto hanno sentito per l’ultima volta il suo odore’”. Antonio Moscatello, giornalista di Aska ed ex corrispondente da Tokyo, conosce alla perfezione la storia di Megumi e della famiglia Yokota. Ha ripercorso tutti i passi di Megumi, ha incontrato i genitori, ha controllato le carte e le testimonianze. E infatti “Megumi - Storie di rapimenti e spie della Corea del nord”, uscito da poco per Rogiosi editore, è uno di quei libri che potrebbero sembrare fiction, ma non lo sono. Moscatello spiega come il programma nucleare e missilistico nordcoreano, le minacce e la tensione alle quali periodicamente assistiamo con occhi occidentali, siano in realtà la minima parte di una trama molto più fitta. E molto più dolorosa. “Megumi, probabilmente, non è arrivata a vedere la sua dimora: è stata presa all’incrocio in cui i cani l’hanno persa. Senza uno sparo, senza un urlo, è stata rapita. Miyamura – il portavoce della polizia di Niigata, la città della famiglia Yokota – esclude che sia stata attirata con l’inganno: la violenza è il leit-motiv di questo tipo di rapimenti. Il silenzio della vittima dimostra che si trattava di professionisti: gente addestrata, sicura del fatto suo. […] Nessuno li ha visti. Sono passati davanti al santuario scintoista che ironicamente si chiama Gokoku-jinja (‘Santuario per la difesa del paese’) o, forse, si sono infilati addirittura nel recinto del luogo sacro. Sono entrati nella striscia di vegetazione che divideva la strada dalla spiaggia. Ora esiste anche un lungomare, al tempo non c’era: dalla pineta si finiva direttamente sulla battigia. L’hanno caricata su un’imbarcazione, probabilmente un gommone. Il tutto deve essere durato pochissimi minuti. Ancora oggi davanti al torii – il portale d’ingresso – del santuario Gokoku, c’è un cartello istallato dalla polizia che ricorda il rapimento di Megumi e invoca la collaborazione dei cittadini per ritrovarla”. Negli anni, la Corea del nord ha cambiato varie volte versione sul destino della ragazza. Alcuni rapiti, dopo un accordo con il governo di Tokyo, furono rilasciati. Ma solo quelli che non avevano avuto contatti con le spie. Secondo una versione di Pyongyang, Megumi si sarebbe suicidata nel 1994. Eppure, quando il Giappone ha chiesto e ottenuto i suoi resti, a seguito delle analisi scientifiche si è scoperto che il Dna di quel che sembravano parti di un corpo carbonizzato in realtà apparteneva a diverse persone, ma non a Megumi. In Giappone la questione dei rapiti è davvero molto seria:lo stesso Shinzo Abe indossa sempre una spilletta blu, appuntata sul bavero della giacca. E’ il simbolo dei giapponesi rapiti e di una giustizia che ancora non è stata fatta.

  

Come scrive Robert Boynton nel libro “Invitation Only-Zone”, un altro studio durato quattordici anni sul tema dei rapiti, nelle zone a “invito speciale” dove vivevano assieme gli stranieri, tra gli anni Settanta e Ottanta, c’erano persone provenienti dal medio oriente, dal sud-est asiatico, dal Libano, dalla Romania. Si conoscevano tra loro. Qualcuno, uscito dalla Corea del nord, parla di Megumi: come Kim Hyun-hui, la spia nordcoreana che mise la bomba sul volo Korean Air 858 il 29 novembre del 1987. Il primo vero attacco terroristico nordcoreano: fece 115 morti. Secondo Kim – arrestata in Bahrain ed estradata in Corea del sud lo stesso anno dell’attentato, poi pentita – Megumi “insegnava giapponese all’agente Kim Suk-ki”. Nel grande programma di Pyongyang, i cittadini giapponesi servivano alle spie per far assumere agli agenti nordcoreani nuove identità.

  

Gli altri stranieri rapiti, o in qualche modo tenuti all’interno dei confini nordcoreani, avevano altre mansioni. Ted e James Dresnok sono i figli del più famoso disertore americano e di una donna romena, l’unica rapita su territorio italiano. Si tratta di Doina Bumbea, scomparsa nel 1978 a Roma, dopo essere stata sposata con un bolognese. Faceva l’artista nella Capitale, Doina, prima di essere attirata – in circostanze mai del tutto chiarite, forse da un agente nordcoreano in Italia – fino a Pyongyang. Scrive Moscatello che gli ormai ex soldati americani “insegnavano l’inglese, traducevano le notizie dai media occidentali. Vivevano assieme in una casa di Mangyondae-guyok e tra loro s’erano stabilite dinamiche difficili di convivenza. A provvedere ai loro pasti quattro giovani cuoche nordcoreane. Nel 1978, racconta Jenkins, la cuoca che lavorava per Abshier ‘restò accidentalmente incinta’. Questo portò i nordcoreani a modificare la politica nei loro confronti: non avrebbero assegnato più loro assistenti nordcoreane, ma avrebbero ‘fornito’ quattro giovani mogli libanesi”, cioè quattro ragazze attirate col miraggio d’un lavoro in Giappone e poi tenute in Corea del nord. “Jenkins rifiutò. Gli altri tre, pur non convinti, decisero di andare a Pyongyang a verificare cosa ci fosse di vero. E sparirono dai radar di Jenkins per un anno e mezzo”. Ma le cose non andarono bene, con le quattro libanesi, perché figlie di famiglie altolocate e alla fine soltanto una di loro sposò Parrish (dopo essere rimasta incinta). “Sistemato Parrish, tuttavia, c’erano ancora da ammogliare Dresnok, Abshier e lo stesso Jenkins. […] A Dresnok fu data Doina Bumbea. Jenkins la incontrò nel 1981, quando la ragazza aveva 28 anni. Doina gli raccontò la sua vita precedente e il modo in cui era finita in Corea del nord: la proposta di fare un’esposizione a Hong Kong, il fatto di dover usare un passaporto nordcoreano perché non era munita né di documento rumeno, né italiano. Secondo Jenkins, Doina gli spiegò che a Pyongyang le fu contestato il passaporto falso, fu interrogata e le fu estorta la confessione di essere una spia. Con Dresnok la donna rumena ebbe due figli. Nel 1997 morì per un cancro. La sua vicenda emerse nel 2006, quando la Bbc mandò in onda ‘Crossing the Line’, in cui si narra la storia dei disertori americani attraverso il racconto di Dresnok. L’ex soldato disse di avere avuto una moglie dell’Est Europa. Quando il documentario arrivò in Romania, lo vide anche Gabriel, il fratello di Doina. Si rese conto di quando la vicenda fosse compatibile con le circostanze della scomparsa della sorella e osservando in un video uno dei nipoti notò l’impressionante somiglianza”. Era solo un’altra famiglia, l’ennesima, distrutta, nel nome di Pyongyang.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.