Il paradosso Marsiglia
Ci sono più kalashnikov qui che nel centro di Kabul. Oggi la città più algerina di Francia è in bilico tra islam radicale e gang di criminali. Con qualche eccezione
Volete venire a Marsiglia? Venite pure, vedrete cosa succede. Volete la guerra? L’avrete. Abbiamo kalach, abbiamo lanciarazzi… Anche se mi fai fuori io resuscito e mi fotto tua madre”. Con questa sfida si apre un video postato su YouTube lo scorso anno, poco dopo l’attentato terroristico di Nizza, subito divenuto virale. S’intitola “Marseille menace Daesh” ed è stato realizzato e interpretato da Mohamed Henni, un supporter dell’OM, l’Olympique Marseille, la squadra cittadina, che normalmente dedica i suoi video e i suoi post al calcio. In quel caso, però, sfida, minacce e insulti sono rivolti, come dichiara il titolo, ai terroristi islamici che avevano annunciato un attacco su Marsiglia.
Quel video è un’antologia quasi poetica dei peggiori insulti e delle più fantasiose minacce che possano inventare nel loro slang multilinguistico i giovani marsigliesi. Ed è la conferma di tutti gli stereotipi sulla città più povera e pericolosa di Francia, con la più alta percentuale di omicidi del paese, l’hub europeo del traffico di droga e armi. “Le kalach, ça déchire”, dilania, dicono i giovani voyou, i criminali. E’ l’ennesima celebrazione della “retorica del kalach”, come la definisce il giornalista Philippe Pujol che da anni si cala in “immersione vertiginosa” nella “fabbrica dei mostri”, i quartieri nord di Marsiglia, non banlieue, ma cité, conglomerati di ecomostri, corti dei miracoli dominate dagli “charbonnier”, i trafficanti di droga. Del resto, come dice al Foglio lo stesso Pujol, “ci sono più kalachnikov a Marsiglia che nel centro di Kabul”.
Il video di Henni, però, testimonia anche i nuovi timori della città più magrebina d’Europa, con una popolazione al 40 per cento musulmana (300.000 su meno di 900.000 abitanti), il nuovo cliché secondo cui Marsiglia potrebbe divenire la “Molenbeek francese”, dove la polizia ha già coniato il termine “islamo-mafiosi” per definire i clan del racket della droga alleati ai circoli religiosi estremisti.
E’ come se molti se l’aspettassero, alcuni quasi lo volessero, a confermare analisi e profezie, sentenziare che non è possibile alcuna forma di coesistenza, sia pure bastarda, che Marsiglia non può essere un modello di multiculturalismo mediterraneo, una città d’immigrazione dove l’integrazione passa anche per la criminalità o per l’accettazione a gang o clan e alla fine crea una vera e propria identità. Anche il fatto che Macron abbia scelto Marsiglia come luogo di vacanza diventa oggetto di confronto tra visioni del mondo.
Si avverte un certo stupore nel fatto che Marsiglia non sia stata ancora colpita, tanto che in un modo o nell’altro si trova modo di collegarla ad altri attentati. Si sottolinea come l’addestramento del gruppo di terroristi di Barcellona potrebbe essere avvenuto nei dintorni di Marsiglia. E la corsa del furgone che il 21 agosto ha investito una fermata d’autobus in un centro commerciale alle porte della città uccidendo una donna, per poi proseguire verso il Vieux Port, sembrava confermare le più fosche previsioni. Tanto che non si riesce ad accettare l’ipotesi – che sembra la più probabile – secondo cui il guidatore avrebbe agito in preda a una crisi di follia, magari ispirato dall’attentato di Barcellona.
“Il crimine ‘made in Marseille’, si rassicuravano gli esperti, secerneva una dose sufficiente di follia e nichilismo per contrastare qualsiasi ideologia radicale. La droga, i cui fili s’intrecciano a volte con quelli del salafismo, continua a occupare tutto lo spazio. E la violenza estrema del narcobanditismo, secondo gli specialisti, fa in qualche modo da profilassi all’islamismo. Ma fino a quando?” scrive Marie-France Etchegoin in “Marseille le roman vrai”.
Il suo libro s’inserisce nella tradizione del noir marsigliese di Jean-Claude Izzo, narratore di “Un Mediterraneo diviso tra bellezza e violenza, tra due colori: l’azzurro del cielo e del mare e il nero della morte e dell’odio”. Solo che quella narrazione è divenuta più indistinta, si perde un po’ tra le pieghe di una politica che enfatizza l’importanza dell’eredità coloniale francese e la conseguente, progressiva radicalizzazione dell’islam. E’ la tesi di Gilles Kepel, professore di Scienze politiche a Parigi, che definisce Marsiglia città algerina per eccellenza, “caratterizzata però da una gioventù che ha riscoperto e interiorizzato gli orrori della guerra anti-coloniale mezzo secolo fa, tanto da farne motivo di rabbia e risentimento”.
Di tutt’altra opinione Olivier Roy, professore alla European University di Firenze, dove dirige il Programma Mediterraneo, autore del saggio “L’Islam mondialisé”, uno di quegli esperti e specialisti che, secondo la Etchegoin, rischiano di esonerare la storia e la politica francese dalle proprie responsabilità. “Il problema di Marsiglia è diventato una protezione. Da un punto di vista demografico potrebbe essere un ricco centro di reclutamento per il radicalismo islamico. Ma la criminalità la protegge dal terrorismo. La criminalità non ha bisogno di radicalizzarsi, le mafie non vogliono radicalizzazione” dice al Foglio.
Secondo Roy la radicalizzazione deriva da una rivolta giovanile nei confronti dei genitori. Una forma di contestazione dimostrata dal fatto che l’Isis ha reclutato soprattutto tra i giovani della seconda generazione d’immigrati dal nord Africa, più vulnerabili perché i loro genitori non sono riusciti a trasmettere la cultura d’origine. Per lo stesso motivo di carattere “familiare” e generazionale circa la metà dei terroristi si è unita all’Isis con un fratello. Il fenomeno, quindi, non è conseguenza della povertà, del razzismo o di una lunga maturazione in un movimento politico. E’ il desiderio di identificarsi in una causa. Se fossero vissuti negli anni Settanta avrebbero aderito a gruppi come le Brigate Rosse o la Baader-Meinhof. I giovani, insomma non si radicalizzano in seguito a un lavaggio del cervello ma aderiscono all’islam radicale proprio perché è radicale. Per lo stesso motivo sono attratti dal salafismo: è semplice da comprendere (si basa sul principio di giusto e sbagliato, permesso e proibito), è rigido e offre un supporto di formazione psicologica personale. Insomma, il loro è un “salto individuale nella violenza”.
A Marsiglia, però, non c’è nemmeno bisogno di saltare. “Perché sono così pochi i foreign fighters che provengono da Marsiglia? Perché a Marsiglia puoi giocare con il kalachnikov, non hai bisogno di andare a Raqqa. Senza contare che qui puoi uccidere i tuoi nemici e poi andare a bere al night. Cosa che a Raqqa non puoi fare”, dice Roy. “Non è morale, lo so. Ma la storia non lo è”.
La stessa cinica morale vale per le organizzazioni criminali. Secondo molti osservatori, infatti, sono le stesse gang e i narcotrafficanti a tenere a bada i terroristi e a mantenere la disciplina tra i giovani. Per il semplice motivo che il terrorismo non è economicamente conveniente. Anzi, disturba gli affari. “Marsiglia favorisce il banditismo, non la radicalizzazione. Il banditismo è un grosso freno per il Daesh. Qui il banditismo è una forma di cultura, questa città ha sempre alimentato la dimensione immaginaria del bandito: ne parli al bar, al ristorante”, conferma Pujol. Inoltre, col progressivo impoverimento della popolazione islamica “la carriera del bandito appare più forte di quella dell’imam”. Secondo Pujol, paradossalmente, il miglior baluardo contro il radicalismo islamico è rappresentato dalle cité, dove il 40 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà (rispetto al 26 di Marsiglia e il 15 nazionale). “Per molti, specie tra i più conservatori, cité e banlieu sono la stessa cosa”, spiega Pujol, facendo invece notare la profonda differenza: le banlieu si trovano nei sobborghi delle grandi città, sono esterne e isolate da queste. Le cité sono all’interno, offrono il rifugio psicologico dell’inclusione. “E’ l’isolamento che crea la radicalizzazione. Le banlieu, a differenza delle cité, non offrono rifugio. I giovani delle cité, invece, si sentono marsigliesi: dalle cité in mezz’ora di bus raggiungono le spiagge dei quartieri sud, dove non c’è apartheid tra sessi, non ci sono prigioni sociali”. L’analisi di Pujol è più complessa di quanto possa apparire. Per questo “grand reporter”, l’identità marsigliese è talmente forte da consentire che al suo interno si sviluppino e si mantengano le identità originali, in maniera anche radicale. “Si è italiani, armeni, corsi, musulmani. Ma innanzitutto si è marsigliesi”. Se si fa rilevare una certa incongruenza o incompatibilità, si limita a rispondere che “sì. Quella marsigliese è un’identità non-identità. La cosa molto marsigliese è proprio l’identità marsigliese”.
“L’aspetto multiculturale esiste. Nel senso che ognuno sta dalla sua parte. E’ coesistenza come separati in casa, apartheid reciproco”. L’opinione di Jean Jacques Fiorito, giornalista del quotidiano La Provence è opposta. “Ci sono due Marsiglie, i quartieri nord e sud, i poveri e i ricchi. Le due parti non si mixano: è una frattura che non si salda. Il problema è l’isolamento dei quartieri nord. Si formano ghetti. E a nord l’islam si sviluppa, i musulmani vivono chiusi in se stessi. Là dove c’è il 50 per cento di disoccupazione c’è pericolo di radicalizzazione. La religione diviene un antidoto alle sofferenze sociali”. Fiorito denuncia l’islam da “piani bassi”, un centinaio di sale di preghiera, alcune delle quali clandestine, per lo più non registrate, ricavate in parcheggi, garage, non importa dove, sotto la direzione d’imam improvvisati, dove sempre più giovani praticano senza controllo. “Questo diventa pericoloso: abbiamo perso il controllo delle cité, sono state abbandonate. C’è inquietudine. E c’è preoccupazione: per i traffici illegali, preoccupazione per la religione”, conclude amaramente Fiorito. “Per molti l’islam è un pretesto, una maschera per i traffici. E in molti casi si tollerano i traffici per evitare altri problemi”.
“Non c’è relazione tra il livello sociale e il terrorismo. Quello che c’è, invece, è l’assenza, l’assenza di un cerchio d’amore”, dice Youres Yousfi, giovane direttore dell’istituto Ibn Khaldoun. Questo liceo privato musulmano (ma aperto a tutti), prende nome dallo storico e filosofo tunisino del XIV secolo, uno di quei pensatori di un islam tanto illuminato che oggi appare quasi una leggenda da “Sindbad il marinaio”. E da quell’islam, almeno parlando con Yousfi, sembra aver tratto ispirazione nella priorità dell’insegnamento scolastico (quello religioso è di due ore la settimana) e nell’apertura al dialogo. “Il problema sta sempre dell’interpretazione del Corano. Meglio apprendere l’islam qui, piuttosto che in moschea o in altre forme. A Marsiglia le moschee, le sale da preghiera non sono all’altezza della complessità del momento storico”. Secondo Yousfi, del resto, il problema non sarebbe risolto da quella gigantesca moschea di cui si discute da circa 15 anni e che, a quanto pare, nessuno vuole davvero. Forse perché nel progetto originario, sembrerebbe quasi segnare una polarizzazione religiosa: dovrebbe sorgere in una delle colline a ovest della città, quasi a fronteggiare coi suoi minareti il campanile della Basilica di Notre Dame de la Garde, che domina la città da un’altura sopra il Porto Vecchio, a est. “Meglio venti scuole che la grande moschea”, dice Yousfi. “Oggi è importante informare, proprio perché assistiamo a un fenomeno di ritorno alla religione, anche nel mondo cattolico. E quando torni alla religione tutte le interpretazioni della religione trovano spazio. Bisogna essere vigili: non siamo al riparo, i ‘malati’ sono imprevedibili. Oggi il più grande pericolo è internet: nel mondo dei complotti si può trovare ogni spiegazione”.
“Le ragazze sono spinte a velarsi su internet”. Anche per Mariam, donna dalla bellezza mediterranea che indossa un abito senza maniche di stile gitano, la rete è una ragnatela che intrappola i giovani. “Io mi vesto così. E’ la politica che ci vuole dividere. Il profeta raccomanda la pulizia, quelle vesti lunghe non fanno che raccogliere sporcizia”. Mariam gestisce una libreria nel marché des Capucins, vero e proprio souk al centro di Marsiglia. Aperta da suo padre Boumedienne, la libreria prende nome da Avicenna, medico, filosofo, matematico e fisico persiano del X secolo: altro nome che segna il pensiero. “L’islam è sottomissione a Dio, non al muftì. Oggi ci sono moltissimi falsi interpreti. I problemi vengono dall’Arabia, dai wahabiti. Sono loro che impongono le regole per le donne. L’islam non è questo, ma i giovani sono ignoranti, vivono nel sonno”, dice Mariam. Ma anche per lei Marsiglia sembra avere gli anticorpi. Lei li chiama principi. “Che siano islamici, cristiani o ebrei, sappiamo tutti cos’è il bene e cos’è il male”.
“I musulmani che vivono qui capiscono certi valori: è il gene del migrante”, dice padre Renato Zilio, missionario scalabriniano che opera nel terzo arrondissement, un quartiere nel centro di Marsiglia dove oltre il 55 per cento della popolazione, quasi tutta musulmana, vive sotto la soglia di povertà. Il quartiere più povero di Francia. La finestra del suo appartamento si affaccia su un piazzale circondato da palazzoni popolari e un muro. “E’ il mio muro dell’infinito”, dice. Di fronte a quel muro che è la sua nuova frontiera dopo i deserti mediorientali, padre Zilio ragiona sulle differenze più profonde tra islam e cristianesimo. “Per i musulmani il termine tollerante non funziona. Il loro termine è l’omogeneità. Deriva dall’immagine del deserto. Per loro è sacra l’omogeneità. Per noi, invece, la pietra angolare è la differenza e quindi la comunione. Per i cristiani il perdono blocca la lapidazione, vedi l’episodio della Maddalena. Per i musulmani il perdono viene dopo la sanzione”. Sembrerebbe un’antinomia difficile da superare, ma padre Zilio la risolve applicando il metodo cristiano: “I sistemi si oppongono, gli uomini s’incontrano”. Il problema maggiore, secondo lui, è la rigidità ideologica francese. “Molti giovani sono alla ricerca di un’identità che la Francia non ha saputo o voluto dar loro: la riscoperta dell’islam e la conseguente pratica religiosa di molti si può spiegare come una ricerca d’identità e appartenenza a una comunità”.
Ma Marsiglia non è la Francia e forse è questo che la salva. Almeno secondo padre Elia Bortignon, che in quello stesso quartiere dirige un’associazione dal nome che è tutto un programma: “Enfants d’aujourd’hui, monde de demain” (Bambini di oggi, mondo di domani). “Marsiglia è sempre stata a parte rispetto alla Francia e continua a esserlo. Non è la povertà il brodo di coltura dell’estremismo, è l’isolamento, ma qui il tessuto associativo è molto forte, qui la gente non si sente tagliata fuori. Anche il tifo per l’OM diventa un senso d’appartenenza”. Alla fine, anche per lui, è Marsiglia in sé che rifiuta di chiudersi. “Dai quartieri nord pigliano l’autobus e vengono in città, in spiaggia”.
Alla fine a Marsiglia si finisce sempre là.