L'integrazione con i musulmani funziona meglio in Germania
La Fondazione Bertelsmann, think-tank con base a Gütersloh in Vestfalia, ha pubblicato il risultato di uno studio compiuto su 10 mila immigrati musulmani fra Germania, Francia, Regno Unito, Austria e Svizzera
Berlino. La partecipazione alla scuola, la conoscenza della lingua, l’accesso al mondo del lavoro come dati oggettivi ma anche la sensazione di essere bene accetti come dato soggettivo. La Fondazione Bertelsmann, think-tank tedesco con base a Gütersloh in Vestfalia, ha pubblicato il risultato di uno studio compiuto su 10 mila immigrati musulmani fra Germania, Francia, Regno Unito, Austria e Svizzera. Scopo della ricerca: misurare il grado di integrazione dei nuovi residenti confrontandolo anche con quello dei loro figli, nati nei paesi ospitanti. Secondo i ricercatori il campione analizzato, rappresentativo di 14 milioni di immigrati di fede islamica, dimostra che “l’integrazione fa grandi progressi” e questo al netto delle ragioni che hanno portato gli immigrati nel vecchio continente, della loro comunità di appartenenza, dell’esistenza o meno di politiche a loro dedicate o dell’ostilità di un quinto, in media, della popolazione residente.
Il primo dato fornito è quello sull’integrazione scolastica: il livello di studi raggiunto dalla seconda generazione è superiore a quello dei primi arrivati. Il 67 per cento dei figli degli immigrati islamici resta a scuola dopo il 17esimo anno di età. Più in dettaglio, i giovani musulmani che continuano a studiare dopo la maggiore età sono l’89 per cento in Francia e l’80 per cento in Gran Bretagna, ma solo il 74 per cento e il 64 per cento in Svizzera e in Germania. Simile è anche l’apprendimento della lingua: il 74 per cento dei musulmani in Francia ha imparato la lingua di Molière già da bambino, e per la quasi totalità dei figli e dei nipoti il francese è stata la lingua madre. Parliamo però di una comunità proveniente all’81 per cento dal Nordafrica, una regione ampiamente colonizzata dai francesi. Ben diversa la situazione in Germania e in Austria, dove, in virtù anche di un’immigrazione più recente, solo il 43 per cento e il 37 per cento degli immigrati musulmani ha imparato il tedesco in tenera età. Titoli di studio e dimestichezza con la lingua non bastano per concludere che i musulmani sono meglio integrati all’ombra della torre Eiffel che della Porta di Brandeburgo. In termini occupazionali è vero il contrario: in Svizzera e in Germania il loro tasso di partecipazione al mondo del lavoro “non è più distinguibile da quello del resto della popolazione”. E questo nonostante il sistema scolastico della Repubblica federale, diviso fra licei e scuole professionali impermeabili gli uni alle altre, “tenda a perpetuare gli svantaggi generazionali”. La ricerca mette in luce che il tempo non basta a sanare le ferite dell’emigrazione: grazie a un permesso di lavoro ottenuto in tempi brevi e a corsi di lingua last-minute per imparare a distinguere un dativo da un genitivo, un immigrato siriano riesce comunque a trovare lavoro in Germania. Non è invece così per il figlio o nipote di immigrati maghrebini in Francia, il cui titolo di studio non riesce a forzare “l’impermeabilità del mercato del lavoro” e per il quale la ricerca di un impiego a tempo pieno risulta difficile.
Il grado di libertà nella pratica l’islam è poi una variabile di difficile valutazione. In Austria, paese che già 100 anni fa ha ufficializzato i rapporto fra Stato e comunità islamica, il 28 per cento dei cittadini non vorrebbe vicini maomettani. A dispetto di un’integrazione ritenuta molto avanzata, la percentuale è del 21 per cento in Gran Bretagna e scende all’11 per cento in Francia. Ma come si vedono gli immigrati musulmani in Europa? Il 94 per cento si definisce connesso o vicino al paese in cui vive e il 75 spende in media il proprio tempo libero in compagnia di non musulmani (l’87 in Svizzera e il 62 in Austria). La connessione anche identitaria al paese di origine resta comunque forte: e va dal 68 per cento in Gran Bretagna all’84 per cento in Francia. Il picco massimo si raggiunge proprio nell’unico paese in cui il sentimento di appartenenza alla comunità nazionale è più basso fra gli immigrati di seconda e terza generazione, rispetto a quello dei loro nonni e genitori.