Lo Stato islamico vuole farci sapere che è tornato forte in Libia
Mentre l'intelligence italiana prende accordi con le milizie, il gruppo terrorista riprende gli attacchi e le decapitazioni
Roma. Dopo essere spariti per sei mesi, dalla settimana scorsa i combattenti dello Stato islamico sono tornati a farsi vedere in Libia. Prima hanno attaccato un checkpoint dell’Esercito nazionale libico (sigla Lna), vale a dire le forze del feldmaresciallo Khalifa Haftar, e hanno decapitato nove soldati e due civili. Poi hanno messo su internet il video di alcuni loro posti di blocco volanti – quindi non fissi – su una strada tra Jufra e Abu Ghrein. Controllavano i documenti agli autisti come se fossero ancora loro al governo, e hanno rapito due viaggiatori perché appartenevano all’esercito.
Lo Stato islamico in Libia era sparito dai campi di battaglia, ma il network clandestino che lavora agli attentati era rimasto molto attivo ed è stato collegato ad almeno due attentati in Europa, la strage con il camion a Berlino nel dicembre 2016 e la strage al concerto di Manchester nel maggio 2017. La zona del loro ritorno è il vastissimo distretto di Jufra, nel deserto della Libia centrale, a sud di Sirte, che è stata la loro capitale libica per un paio di anni. Lo scopo di queste loro apparizioni è farci sapere che si sentono abbastanza forti per ricominciare la guerra interrotta per ko tecnico dopo la liberazione di Sirte, nel dicembre 2016, dopo una battaglia durata sette mesi. Il 19 gennaio i bombardieri americani avevano colpito e distrutto i campi mobili nel deserto dove si erano nascosti i superstiti della battaglia e avevano ucciso più di 80 combattenti. A quel punto lo Stato islamico in Libia aveva deciso di andare in modalità stealth: niente avvistamenti, niente messaggi, niente video. Fino appunto alla settimana scorsa.
Al ritorno dei combattenti corrisponde un aumento dell’attività su internet. Appaiono nuovi canali pubblici sull’applicazione Telegram che promettono “La guerra è appena cominciata” e altri (segreti, quindi non aperti al pubblico) che citano il leader del 2015, il saudita, Abdel Qader al Najdi, come se fosse ancora al comando (si pensava fosse stato rimpiazzato da un tunisino, Jalal al Din al Tunisi, ma allora forse non è così). Il governo libico di Tripoli stima che i baghdadisti libici in questo momento non siano più di mille, da quasi seimila che erano prima della disfatta secondo la media delle stime che circolavano nel 2016, ma trascurarli sarebbe un errore perché hanno già dato prova in altri paesi di essere specialisti nel risorgere dalle ceneri dopo una fase di invisibilità. Forse c’è già chi li sorveglia, perché secondo fonti locali a fine luglio ci sono stati due bombardamenti da parte di aerei non identificati contro lo Stato islamico nell’area di Jufra.
In questo momento, il nemico numero uno dello Stato islamico libico è il progetto dell’Unione europea – con l’Italia all’avanguardia – per mettere in sicurezza il confine meridionale del paese, portare un po’ di controllo nella terra di nessuno a sud e negoziare una riconciliazione tra l’est di Khalifa Haftar e l’ovest di Fayez al Serraj. Il piano dello Stato islamico, risorgere e seminare instabilità grazie alla rivalità tra Tripoli e Bengasi, è l’opposto del progetto europeo, che punta a stabilizzare e ricucire i rapporti tra le due metà del paese. Come hanno raccontato il sito Middle East Eye e l’Associated Press, l’intelligence italiana da settimane incontra gruppi militari e milizie libiche in aree specifiche per negoziare la loro trasformazione in agenzie di sicurezza, in cambio di finanziamenti ingenti. La settimana scorsa Reuters ha parlato con vaghezza di una milizia di Sabratha chiamata “Brigata 48” che però è una forza ufficiale dell’esercito di Tripoli. Gli italiani hanno anche rapporti stretti e funzionali con la “Brigata del Martire Abu Anas al Dabbashi”, sempre a Sabratha.