Tillerson dimezzato
Il segretario di stato senza portafoglio regge in mezzo alla tempesta di Trump. Per quanto, non si sa
New York. Un mistero di palazzo aleggia attorno alla posizione di Rex Tillerson, segretario di stato indebolito e delegittimato che si è smarcato dalla posizione di Donald Trump sui fatti di Charlottesville con la più surreale delle dichiarazioni: “Il presidente parla per sé”. Non solo. Nella stessa intervista, con Chris Wallace di Fox News, ha detto che “noi esprimiamo i valori americani dal dipartimento di stato, noi rappresentiamo i valori americani”, mentre quando Trump si è espresso in modo ambiguo sull’atto terroristico di matrice neonazista a Charlottesville parlava a titolo personale. Non è chiaro per quale motivo il presidente non abbia già esplicitato il suo dissenso: per dissidi molto meno gravi certi membri dell’Amministrazione e compagni di partito sono stati travolti da tweetstorm e trollate varie, e non è inconsueto che questi disaccordi si concludano con un licenziamento. Il procuratore generale, Jeff Sessions, è stato bersagliato per mesi per la decisione di ricusarsi sull’inchiesta russa, Mitch McConnell e Paul Ryan, i leader repubblicani al Congresso, ricevono quotidianamente le reprimende pubbliche della Casa Bianca. Tillerson è stato risparmiato, per il momento, e la sua sorte lo accomuna a Gary Cohn, il massimo consigliere economico che si è presentato a colloquio con Trump con una lettera di dimissioni in tasca e ha dato voce al suo disaccordo con un’intervista al Financial Times, eppure è sempre al suo posto. Sono mesi che Tillerson vive in uno stato di crisi permanente. E’ stato umiliato dal presidente che lo scavalca con i suoi inviati su tutti i dossier che contano, ha perso la fiducia dei diplomatici di rango che reggono il dipartimento, ha guardato silente il presidente che impone tagli draconiani a un apparato che perde pezzi. Gli ultimi ad abbandonare il posto sono stati tre funzionari presso l’Onu, giusto qualche settimana prima che Trump faccia il suo esordio all’Assemblea generale.
Per sopportare i tagli di bilancio proposti dalla Casa Bianca – il 28 per cento per l’anno fiscale 2018 – Tillerson ha avviato un mastodontico processo di riorganizzazione del dipartimento che sta procedendo lentamente e molto probabilmente non arriverà mai a conclusione. Ci ha messo mesi a trovare un secondo che lo affiancasse e ha già attraversato un esodo di massa nell’ufficio dei suoi diretti sottoposti. Questo lo ha inevitabilmente portato a rinchiudersi nel cerchio magico dei suoi consiglieri più stretti. In un sondaggio fra i dipendenti del dipartimento, in 35 mila si sono detti “estremamente preoccupati” per i tagli che verranno. L’ultima operazione di ridimensionamento riguarda gli inviati speciali. In una lettera al senatore Bob Corker, capo della commissione Esteri, Tillerson ha annunciato un piano per eliminare circa trenta inviati, fra cui quello sulla Siria e per la chiusura del carcere speciale di Guantanamo. Verranno eliminati anche quelli che si occupano di cambiamenti climatici, lavoro, questioni cibernetiche e informatiche, diritti dei disabili, dell’accordo nucleare con l’Iran e del conflitto nordirlandese, nella convinzione che i desk ordinari del dipartimento di stato possano farsi carico dei dossier tradizionalmente affidati a strutture straordinarie.
L’editorialista conservatrice Jennifer Rubin suggerisce con sarcasmo al presidente di “porre fine alle sofferenze” di Tillerson e di licenziarlo prima che il segretario imploda sotto il peso della sua irrilevanza: “Il segretario di stato, ampiamente deriso come il più debole a memoria d’uomo, ha soltanto sottolineato il suo status di emarginato nell’Amministrazione”, ha scritto Rubin. Tillerson è superato da ogni parte dagli uomini di fiducia di Trump e sta diventando uno specialista della battuta sbagliata al momento sbagliato. La stessa intervista con Wallace in cui ha preso le distanze dal presidente era nata per rimettere il segretario al centro della scena grazie alle domande morbide di un intervistatore amichevole.
Sulla Corea del nord ha detto che “certamente mostra un certo livello di moderazione” mentre si moltiplicavano i test missilistici e le provocazione del regime. Si è incartato nel dettagliare la nuova strategia annunciata da Trump in Afghanistan, spiegando confusamente che “il presidente non ha fissato nessuna scadenza arbitraria” e allo stesso tempo “il tempo a nostra disposizione non è illimitato”. Anche nei rapporti con la Russia, dove Tillerson si presentava con le mostrine dell’ex capitano del colosso petrolifero Exxon in una relazione più che amichevole con Vladimir Putin, la sua posizione attendista è stata scavalcata e infine neutralizzata dall’ondivaga linea dell’improvvisazione trumpiana. Tillerson e Trump sono rette divergenti in questa Amministrazione, e il presidente gli ha tolto di fatto ogni peso diplomatico per fare in modo che si concentri sul taglio dei costi e la razionalizzazione della struttura. Non proprio un’investitura politica in grande stile, ma forse è proprio per il suo profilo di tecnico e organizzatore che Trump non si è scagliato contro di lui come ha fatto fin qui con tutti quelli che si sono messi di traverso. Quando hanno insistito perché spiegasse la sua separazione con Trump su Charlottesville, lui ha risposto soltanto: “Ho già fatto i miei commenti riguardo ai nostri valori”.