Nessuno produce, nessuno investe, nessuno risparmia. Chi avrà soldi li spenderà all’istante o vi comprerà dollari che depositerà al sicuro in una banca estera per non vederli divorati dall’inflazione

L'agonia di un regime

Loris Zanatta

Reportage da Caracas, la capitale del regno chavista dove i poveri saranno pure rimasti tali, ma almeno lo sono diventati tutti. Ecco il vero trionfo dello stato socialista

Non è pieno, il volo per Caracas, ma quasi. Stento a crederci: chi diamine ci va di questi tempi? Cinesi, un sacco di cinesi. Tutti maschi. Che stupido a non pensarci: Pechino si sta comprando il Venezuela, pezzo dopo pezzo. Sarà un affare? Senza i suoi crediti il governo chavista avrebbe già dichiarato bancarotta. Ma nulla è gratis. Così il governo svende e la Cina compra. La sovranità è salva. O no?

 

A Maiquetía si respira il Caribe. Almeno quello: di aria condizionata nemmeno l’ombra. Si soffoca, ma la festa comincia: primi per distribuzione della ricchezza, tuona un gigantesco pannello. Caramba! Strano: l’aeroporto è deserto. Era un grande hub. Che gli è successo? Tanti militari, però, annoiati e truci. Da quanto non li vedevo negli aeroporti? Fanno paura.

 

So bene che non si cambia moneta all’aeroporto. Men che meno dove c’è mercato nero. Sono trent’anni che bazzico questi posti. Ma sono ospite e voglio avere qualche spiccio in tasca. Infatti la ragazza del cambio stenta a crederci: ecco un pollo, avrà pensato; l’unico, a guardarmi intorno. Il mio biglietto da cinquanta euro entra così nella storia: lo fotocopia e io lo corredo di impronte digitali. In cambio ricevo trentadue banconote, mezzo chilo di carta: fuori ne avrei ottenute sei volte tante. La maggior parte da 100 bolivares. Valore di mercato: cinque centesimi di euro cadauna. Non ci si compra nulla. Ma Caracas ne è piena.

 

Uguaglianza. Prendo il toro per le corna e parto in cerca dell’uguaglianza. Il governo se ne vanta. Vado accompagnato, perché Caracas è pericolosa. Molto. Mi fido il giusto delle statistiche: lessi che l’Argentina aveva meno poveri della Germania, lo diceva l’Onu; che a Cuba non c’erano prigionieri politici, lo diceva un vescovo. So come vanno queste cose. A prima vista, nulla di nuovo: a ovest i ranchos, le baraccopoli, la mega urbanizzazione di Catia, dove nessuno si ferma al rosso e adulti e bambini sventrano i sacchi della spazzatura in cerca di cibo. E’ pieno giorno. Più che da vent’anni di socialismo e dalla migliore congiuntura economica della sua storia, questa città pare uscita da un bombardamento. Proseguiamo: a est c’era la Caracas bene, adagiata sulle pendici del monte Avila, e lì rimane coi suoi splendidi giardini e i suoi shopping. Qualcosa però non torna. Basta poco a capirlo, due chiacchiere dal panettiere del Chacao, in una frutteria di Altamira, un giro tra scaffali semivuoti: c’è mestizia, rabbia, umiliazione, impotenza. La vecchia oligarchia fa le valigie, il ceto medio ha perso tutto: i miei colleghi, professori universitari, guadagnano trenta dollari al mese. Ma allora è vero: qui regna l’uguaglianza! I poveri saranno pure rimasti tali, ma almeno lo sono diventati tutti. Hugo Chávez ha invertito l’aforisma di Olof Palme: odiò i ricchi più di quanto amò i poveri. Lui sì che ha combattuto la ricchezza ed ora il suo pauperismo cristiano regna sovrano. Sovrano ma non pacifico: il vulcano borbotta, la tensione è palpabile. Vedere per credere: salgo al Petare. Baraccopoli ne ho viste tante, ma questa le batte tutte. Non finisce mai. Lì era e lì rimane: c’è solo una teleferica in più; unisce la base alla cima, non ha fermate intermedie. Quasi tutti vivono in mezzo. Un’idea geniale? La storia è la solita: narcos e sporcizia, violenza e corruzione, furti e stupri. Lo stato? Non pervenuto. Eppure qualcosa non torna: vedo anche auto nuove, ristoranti pieni, centri commerciali alla moda. Meno male, dico io. Ma l’uguaglianza? Qualcuno è più uguale degli altri. Sempre. Il segreto è lo stesso che a Cuba: bisogna possedere dollari, ottenerli al cambio ufficiale e rivenderli a quello parallelo. In tal caso, sarete ricchi. Ma come si fa ad averli se, salvo rare eccezioni, chi li ha è lo Stato? Nella domanda sta la risposta: bisogna prendersi un pezzo di stato. Come si fa? Diventate bolivariani! Lo stato ce l’hanno loro e non lo dividono con nessuno: è il loro bottino. C’è da stupirsi che i nuovi ricchi siano avidi speculatori, cinici parvenus, giovani rampanti? Li chiamano boliburgueses, bolichicos: sul piano etimologico, non fa una piega.

 

L'aeroporto della capitale è deserto. Era un grande hub. Che gli è successo? Tanti militari, però, annoiati e truci

Mercato. Il chavismo odia il mercato. Vade retro! Corrompe il popolo, istiga l’egoismo, ammorba lo spirito. Roba da imperialisti, veleno da capitalisti. Difatti lo combatte: controlla i cambi, nazionalizza ed espropria, impone dazi e tariffe, amministra prezzi, raziona beni, requisisce profitti. Vent’anni così e qual è il risultato? A Caracas non si parla che di soldi: lo sterco del demonio troneggia. Tutto si vende e tutto si compra. Non è una malattia compulsiva, non è che la gente non preferirebbe parlare di arte, sport o cucina: è questione di sopravvivenza. Dove trovo un po’ di farina? Chi mi cambia i bolivares al miglior tasso? Chi mi compra il latte in polvere messicano che il governo mi ha ficcato nella cesta del razionamento? Con quel che ne ricavo potrò forse comprare un po’ di preziosa carta igienica! Al mercato nero, ovvio. Volano sms, fioccano whatsapp: tutti mercanti, speculatori, agenti di borsa. E’ legale? No. Allora è vietato? Nemmeno. Ma attento a quel che fai: una spada pende sul tuo capo.

 


Una marcia anti-Maduro a Caracas (foto LaPresse)


  

Economia. Quando Hugo Chávez arrivò al potere, il barile di petrolio si vendeva a 8 dollari: nulla. Non c’è da stupirsi che il vecchio sistema democratico, già minato dalla corruzione, crollasse. Pochi anni dopo risalì a 25 dollari e Chávez lo celebrò a reti unificate: così va bene, disse radioso. Da allora il prezzo continuò a crescere e per un decennio si attestò sopra i 100 dollari: una cosa inaudita. Le casse venezuelane grondavano denaro e il governo era un bancomat che foraggiava l’orgia di consumi. La benzina? Gratis. E così l’acqua, il gas, la luce. Non per i poveri: per tutti. I crediti? A tasso negativo. I trasporti? Paga lo stato. Le armi? Comprate, comprate. Cuba chiede petrolio? Diamoglielo: ne abbiamo tanto! Chávez girava il paese con la tv alle calcagna. Lo spettacolo del re cattolico che ispezionava il suo reame andava in diretta. Espropriatemi questo terreno, diceva: ci voglio un villaggio! E si faceva. Di chi è questa casa? Mi piace, facciamoci la tal cosa. E si faceva. Scherzo? Per niente. Era proprio così. Va da sé che allora si votasse ogni anno e il regime vincesse a man bassa: la torta era immensa e un po’ di briciole toccavano a tutti. Poi il prezzo del petrolio è sceso. Era prevedibile, ma non era stato previsto. Il chavismo è come il capofamiglia che vince la lotteria ma sperpera tutto: di tanta ricchezza, non rimane nulla. Eccolo così svendere i gioielli di famiglia ai cinesi; ed eccolo chiudere le urne per non perdere il potere: persino i poveri di Catia e Petare lo avevano bocciato nel 2015; non era il caso di farli votare ancora. Ma com’è possibile un simile tracollo? L’economia non è una scienza esatta, ma alcune cose le sa e ce le ha dette. William Easterly, per esempio, insegna come i governi possono uccidere la crescita economica: con inflazione eccessiva, elevato differenziale tra cambio ufficiale e cambio nero, alto deficit di bilancio, tassi di interesse che rendono insostenibile l’attività creditizia, restrizioni al libero commercio e servizi pubblici scadenti. Tali elementi incentivano la corruzione e inibiscono la produzione. Ebbene, in tutti tali ambiti il chavismo è campione olimpionico: primo per distacco. Il risultato è ovvio e tangibile: nessuno produce, nessuno investe, nessuno risparmia. Chi avrà soldi li spenderà all’istante o vi comprerà dollari che depositerà al sicuro in una banca estera per non vederli divorati dall’inflazione: i funzionari del regime per primi. Il Venezuela è così: un limone spremuto, un bottino saccheggiato, un paese sbranato dalla sua nuova classe dirigente.

 

 

Stato. Da un regime come il chavista, da un governo che inneggia al socialismo, ci si aspetta la creazione di uno stato forte, rispettato, efficiente, affidabile. Magari! In Venezuela non ce n’è traccia. Ne troverete un solo esempio: i servizi segreti. Li hanno messi in piedi i cubani, che se ne intendono. Per il resto, lo stato è un disastro. E un disastro sono i servizi che lo stato dovrebbe fornire: sicurezza, educazione, sanità, trasporti, carceri. Uno peggio dell’altro. Sulla sicurezza, basti dire che a Caracas vi è un quartiere chiamato sin ley: fuorilegge. E se il numero di omicidi impaurisce, il tasso di impunità sconvolge: uccidere a Caracas è una delle azioni meno rischiose al mondo. Chissà come mai all’imbrunire la città si svuota e impera un coprifuoco non dichiarato? Non è la legalità che importa al regime: se mantenete l’ordine, è il suo patto con le gang, avrete campo libero, qualsiasi siano le vostre attività. Solo se le regole verranno infrante, se un conflitto d’interessi inquinerà l’idillio con la criminalità, vi sarà la resa dei conti. Ma nemmeno allora interverrà lo stato di diritto. Semmai il terrorismo di stato: giungerà all’alba con le maschere dei corpi speciali e ucciderà, rapirà, ruberà, stuprerà, prima di andarsene impunito. E’ la stessa tattica impiegata nelle carceri: in tempi normali sono spazi che lo stato cede ai gruppi criminali, che li governano a piacere e li usano da base dei loro traffici. Meno le carceri femminili, che sono bordelli privati della polizia. Quando però qualcosa non gira come dovrebbe, se uno sgarro turba tale quiete mafiosa, accadrà ciò che le cronache hanno riportato poche settimane fa: 35 detenuti uccisi dalle forze di sicurezza, per lo più con colpi alla nuca; avevano le mani legate dietro le spalle. E’ lo stato chavista.

 

Inettitudine, malgoverno, corruzione, violenza, autoritarismo: la lista dell'obbrobrio chavista è infinita

La scuola e gli ospedali andavano un po’ meglio quando i petrodollari giravano. Oggi sono al collasso. Ai bambini il governo ha regalato un laptop. Perché fosse chiaro il nome di Babbo Natale, i suoi software grondano propaganda chavista. Molte famiglie li hanno cambiati, ne hanno caricati di normali e oggi sono in vendita sui banchi dei mercatini. Come tutto. Dell’università meglio non parlare: chi si è piegato e plaude al regime riceve lauti finanziamenti; chi non lo ha fatto langue e vivacchia. Il governo si vanta del boom delle matricole, ma non ne ha motivo: i più hanno fatto appena due pessimi anni nelle misiones dei cubani e già accedono alle università. Gli atenei seri si rifiutavano di riconoscerne i titoli, così il governo ha creato le sue università: sono tremende, ma fanno statistica. E le statistiche sono spesso scenari di cartone dietro i quali si cela l’inferno. E’ quel che accade negli ospedali, dove so di chi ha perso familiari per mancanza di medicine, di chi è costretto a portare tutto da casa per accudire i propri cari ricoverati e perfino guanti e mascherine per i chirurghi. Mancano i vaccini, con buona pace di chi li ha e non li vorrebbe: so di famiglie disperate che se li fanno spedire dai luoghi più remoti. C’è da sperare che non giungano con trasporti venezuelani: sozzi, sgangherati, inquinanti, rumorosi e soprattutto pericolosi, disastro tra i disastri; perfino la metropolitana, che un tempo fu oasi di pace e buona educazione.

  


Un'esercitazione delle forze di sicurezza a Caracas (foto LaPresse) 


 

Poi ci sono le case popolari, un capitolo a parte: evviva le case popolari, uno dei debiti sociali più gravi in Venezuela. Se ne è occupata la misión vivienda e perché non vi sia dubbio di chi ne porta il merito, ogni suo edificio porta la firma o il volto di Chávez. Pazienza: purché i poveri abbiano una casa! Oppure no? Nulla è come appare, in Venezuela. A Chávez non garbava che i costruttori privati facessero denaro costruendo case per il “suo” popolo; ma non poteva neppure escluderli a priori. Così inviò loro i piani edilizi cui il governo intendeva attenersi. Piccolo problema: se li era fatti fare in Cina ed erano in cinese. Gli ingegneri venezuelani imprecarono ma se li fecero tradurre. Scoprirono così che erano inadeguati al clima e al suolo di Caracas e lo fecero notare. Vedete, replicò Chávez dalla tv? Gli escualidos, i borghesi, non vogliono collaborare col mio governo. Così affidò l’impresa ai suoi amici. E si vede! Molti di quei palazzoni devono molto ai canoni estetici degli architetti bielorussi che li hanno alzati e il loro grado di disfacimento ricorda già le tristi periferie dell’Europa orientale. Il fatto è che a Chávez non importava che i poveri avessero case degne e di proprietà: tant’è vero che quelle case non hanno servizi, sono torride e concesse in usufrutto. Ciò che importava a Chávez erano due cose: le statistiche, per vantarsi di averne costruite tante; e la conquista del territorio, la creazione di avamposti chavistas nei quartieri dell’odiata borghesia: era un militare e il suo capriccio era legge.

 

  

Tirando le somme, lo stato che il chavismo ha messo in piedi è quello tipico dei populismi latinoamericani. Non ha nulla dello stato sociale della tradizione riformista europea, figlia della cultura liberaldemocratica, ma ha tutto della tradizione patrimonialista della monarchia iberica, antiliberale, confessionale, assolutista. Non c’è separazione dei poteri, non c’è libertà di professare un’ideologia diversa da quella del regime, non c’è stato di diritto, non c’è libertà individuale: sei un microbo in balìa dell’ultimo burattino col basco rosso che incontri per strada; lui avrà potere assoluto su di te e tu non avrai alcuna istanza cui rivolgerti se lui deciderà di nuocerti, se ti metterà della droga nell’auto per denunciarti, se ti accuserà di averlo aggredito per incarcerarti. Lo stato chavista è patrimonio di chi ne detiene le redini, che non fa distinzione tra patrimonio pubblico e patrimonio privato. Tutto ciò in nome dell’ineffabile pueblo di cui il chavismo reclama il monopolio, come fosse cosa sua.

 


Yolyter Rodriguez, casalinga di 56 anni rimasta ferita negli scontri con le forze di sicurezza venezuelane, viene assistita dalla figlia nella loro casa di Caracas (foto LaPresse)


 

Militari. Quello chavista è un regime militare e tale sua anima spicca sempre più man mano che perde consensi. I minacciosi latrati di Donald Trump gli facilitano soltanto il compito. Le fonti da cui i militari traggono il loro potere sono due: complementari e portentose. La prima è di tipo materiale ed è il controllo che essi esercitano sulla produzione e distribuzione dei beni. Le cariche strategiche in tali ambiti sono tutte nelle loro mani. In tal senso sono l’ossatura del regime, che se crollasse lo farebbe sulla loro testa: salvare il chavismo, per essi, equivale dunque a salvare se stessi. Ma ciò ne fa anche una casta privilegiata: sono i militari a maneggiare i dollari, il Sacro Graal della ricchezza nel povero Venezuela. Ciò non ne nutre solo l’arroganza, ma ancor più la corruzione. Poiché però è facile immaginare che un governo democratico presenterebbe loro il conto, ciò li lega ancor più al regime. La seconda fonte del potere militare è di tipo simbolico: sono i militari a governare il culto del Capo, a lucrare sul mito del Dio Chávez. Il culto della personalità cui si assiste in Venezuela è così kitsch e anacronistico da lasciare increduli: sogno o son desto? Tant’è: farebbe ridere se non facesse piangere. Gli occhi di Chávez dipinti sulle case, le gigantografie dove meno te lo aspetti, le sue pompose frasi riprodotte all’infinito. Fu d’altronde lui stesso a pretendere che i venezuelani non avessero altro Dio all’infuori di lui: cambiò i simboli della nazione come si cambia una camicia, fece riscrivere i manuali di storia, toccò il culmine del grottesco facendo riesumare i resti di Bolívar, che poi sotterrò in nuovo Panteon, lontano dalla famiglia, rimasta in cattedrale. Chi ha molto fegato o senso dell’umorismo può seguire la scena su YouTube: l’inno nazionale sullo sfondo, gli esperti forensi vestiti come agenti dei Ris entrano nella cripta e tra le frasi gravi del commentatore estraggono i miseri resti da cui sarà possibile dedurre, udite udite, la vera immagine del Libertador, appena un po’ diversa della precedente e ovviamente altrettanto sindacabile; ora lo chiamano il Bolívar di Chávez.

 

Più che da vent'anni di socialismo e dalla migliore congiuntura economica, questa città pare uscita da un bombardamento

Violenza. Tutto ciò sembrerebbe fare della Venezuela chavista una Macondo esuberante e folklorica. Ma se la Macondo colombiana di García Márquez era magica e tenera nella sua leggerezza, quella venezuelana è fanatica e feroce, pesante e implacabile nei suoi soprusi, arbitri, ricatti; soprattutto nella sua violenza. Ho toccato con le mie mani le biglie d’acciaio sparate dalla polizia contro i manifestati, causa di molte morti; ho sentito con le mie orecchie i testimoni delle brutalità militari, delle torture spietate, delle umiliazioni gratuite, del violino spaccato in testa al giovane musicista, della ragazza stuprata addosso a lui, nel più tipico rituale machista dei militarismi latinoamericani. Non era d’altronde stato lo stesso Chávez a inaugurare il genere, quando diede l’ordine di stuprare la giudice Afiuni? La sua colpa era di aver scarcerato un nemico politico del governo perché erano scaduti i termini della custodia preventiva. Chávez la fece arrestare, giudicare, condannare a trent’anni e infine stuprare. Perfino il suo amico Noam Chomsky dovette provare vergogna. La giudice Afiuni ha sofferto abbastanza, disse. Prima di tornare a plaudire. Si può dunque immaginare quale grado di credibilità abbiano le minacce del regime quando, nelle vigilie elettorali, minaccia i dipendenti pubblici di ritirare loro la pensione, di cacciarli dal lavoro, di farli picchiare e uccidere se non gli daranno il voto a cui non dubita di avere diritto.

 


Il presidente Nicolas Maduro in conferenza stampa (foto LaPresse) 


 

Inettitudine. Malgoverno, corruzione, violenza, autoritarismo: la lista dell’obbrobrio chavista è infinita. Ma mi rimangono impresse le parole di un’amica francese, da quarant’anni in Venezuela. Affranta, gli occhi colmi di una rabbia gelida, le sue parole erano lame: sono degli inetti; non sanno fare niente e tutto quello che fanno, lo fanno male. Ecco: è quello che per tempo mi è ronzato per la testa e non saprei esprimere meglio. Inettitudine, incapacità, dilettantismo, ideologismo da strapazzo, uniti in una miscela esplosiva ad arroganza, violenza e fugace ricchezza, hanno scavato una fossa che ha inghiottito il paese tutto intero. Chi ci ha creduto e chi non si è mai piegato. L’inettitudine impregna tutto: sta nello scheletro del grattacielo mai concluso che campeggia in mezzo alla città, nella ferrovia che termina nel vuoto in periferia, nelle mille opere insensate in cui il governo ha buttato milioni, nel nepotismo dilagante, nei contratti agli amici e agli amici degli amici, come la brasiliana Odebrecht, madre di tutti gli scandali.

 

Se il numero di omicidi impaurisce, il tasso di impunità sconvolge: uccidere a Caracas è una delle azioni meno rischiose al mondo

Complicità. Alla periferia di Caracas c’è un’aiuola verde come solo ai tropici il verde riesce ad essere. E’ cosparsa di croci; sotto ogni croce un nome: quasi tutti ragazzi, studenti. E tra le croci un lenzuolo e sul lenzuolo una scritta: la tua indifferenza ti rende complice. L’Italia e l’Europa sono colmi di complici di tale scempio. Ho visto studenti spaccare vetrine perché turbati da un tornello, non ne ho sentito uno spendere parole per i giovani uccisi a Caracas; ho letto giornali e seguito programmi che inneggiavano a Chávez, poi passare ad altro con nonchalance; ho sentito colleghi guidare la carica contro il neoliberalismo e cavalcare intrepidi la tigre venezuelana, non avendo idea che di liberalismo il Venezuela ne ha avuto ben poco, ma che almeno aveva democrazia e accoglieva i rifugiati delle altrui dittature. E’ così e ci ho fatto il callo: l’Italia e l’Europa sono piene di dilettanti allo sbaraglio che salgono su ogni trenino latinoamericano che ripete l’antica solfa populista e lascia sempre la stessa eredità: miseria, violenza, corruzione, autoritarismo. Poi, quando il trenino s’è schiantato, se ne vanno fischiettando, in attesa del prossimo: mica le pagano loro, le conseguenze. Sarebbe ora che la piantassero, perché fanno danni. O che almeno imparassero a capire di cosa si tratta.

  

Speranza. All’aeroporto è sempre peggio: per l’afa e per i militari che circondano la fila degli imbarchi. Ci scrutano uno a uno e qualcuno lo chiamano fuori dalla fila. Brividi. Cercano droga, ma è assurdo: ci hanno già perquisiti tre volte. La cerchino dov’è, borbotta inferocita un’anziana: al palazzo presidenziale. Si direbbe che marchino il territorio, che vogliano intimidire. Due giorni dopo hanno arrestato una militante dei diritti umani che cercava di lasciare il paese. L’ultimo militare lo trovo proprio sulla porta dell’aereo, in fondo al tubo. Mi viene in mente quel politico italiano che confuse il Venezuela col Cile; nella sua ignoranza ci è andato vicino: sembra il Cile del 1973, penso accompagnando il decollo con un sospiro di sollievo.

 

Eppure non me ne vado sconfortato: ho incontrato gente decisa, ho conosciuto gente capace, giovani coraggiosi; tanti venezuelani che giorno dopo giorno si rigenerano facendo con serietà e professionalità il proprio lavoro, scommettendo nel futuro mentre il paese cade a rotoli intorno a loro, i figli se ne vanno e i nipoti crescono stranieri. Non lasceranno il loro paese in mano a quell’orda di bruti. Se lo vorranno, dovranno uccidere ancora. E molto. Lottano da soli, perché pochi al mondo osano sfidare chi blatera in nome del popolo. I più preferiscono blandirli. Ma qualche amico ce l’hanno e mi piace pensare che saremo sempre più.

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