La guerra fredda a Silicon Valley
Il consolato russo di San Francisco chiude tra curiosi, giornalisti, mitomani e un comignolo che, nonostante il caldo, fuma
In Silicon Valley la guerra fredda inizia nel giorno più caldo. A San Francisco il termometro segna cifre mai sentite da queste parti, 106 gradi fahrenheit, cioè oltre i 40, e così quando si è vista ieri mattina una fumata nera, vischiosa, dal tetto del consolato russo, si è pensato a un incendio. Sono arrivati i pompieri, è stato spiegato dai solerti funzionari che è un camino, tutto regolare. Ma il riscaldamento acceso pare strano nel weekend che chiude ufficialmente l’estate, quello del Labor Day, e che però per le temperature assomiglia di più a un Ferragosto italiano.
Sarebbero temperature normali in qualunque città, infatti, ma si sa che nella baia l’estate è gelida: fino a qualche giorno fa ci sono state nebbie e una media di 15 gradi, e vale sempre l’abusata e forse spuria massima di Mark Twain, “L’inverno più freddo della mia vita fu quell’estate a San Francisco”. Adesso il caldo tutto insieme, e al Consolato russo hanno pensato bene di accendere il camino: non per burloneria, ma per liberarsi di alcune carte imbarazzanti. La fumata nera cesserà infatti oggi, quando tutto il personale dovrà sgombrare l’edificio, su ordine del Dipartimento di stato americano che solo 48 ore fa ha ordinato ai russi di andarsene.
Il fumo dal consolato russo di San Francisco che oggi dovrà essere evacuato per ordine della Casa Bianca pic.twitter.com/PxJkWhfQee
— Michele Masneri (@michimas) 2 settembre 2017
La chiusura del consolato russo a San Francisco è l’ennesima mossa di una partita diplomatica di espulsioni e ritorsioni molto House of Cards iniziata l’anno scorso, quando Obama sconfitto impose ai russi di abbandonare due uffici, a New York e nel Maryland. Il sospetto era che fossero, come sempre in questi casi, “covi di spie”. Trump, appena eletto, contro ogni attesa non ha ridato indietro al presunto amico Putin le proprietà sequestrate; così Mosca per ripicca ha imposto a sua volta l’abbandono agli americani di due residenze, e ordinato il licenziamento di 755 dipendenti delle ambasciate americane sul suolo ex sovietico. Questo a luglio.
L’ultima mossa è arrivata giovedì. Dopo le vacanze. Il Dipartimento di Stato ha dato 48 ore di tempo al consolato e al Console per abbandonare l’ufficio e la residenza diplomatica; dopodiché questa mattina le autorità americane perquisiranno l’edificio. Intanto, il comignolo ha cominciato a fumare. Un fumo nero denso che ha subito attirato gli onnipresenti vigili del fuoco, arrivati sui loro camion lucidi oro e rossi, e rimandati indietro: “abbiamo solo acceso il caminetto”, hanno detto i funzionari. Poi – siccome siamo in California – è venuto pure un ispettore del comune: ci si è subito preoccupati per l’ambiente e la qualità dell’aria; in realtà quello che tutti pensano è che si brucino documenti segreti; “abbiamo finalmente capito che in questa sede si sono svolte attività di spionaggio” ha detto Rick Smith, ex capo controspionaggio di San Francisco. Ieri il comignolo ha cominciato ad ardere a mezzogiorno, e alle sei e mezzo di sera era ancora in piena attività, riempiendo di Co2 il vicinato affluente.
Il palazzo, uno dei pochi di mattoni, a sei piani, con vista eccezionale della baia, è posto nel quartiere rigoglioso di Pacific Heights, non lontano ironicamente dalla zona di Russian Hill; qui stanno le altre rappresentanze consolari e i veri ricchi (tipo Peter Thiel, il fondatore di Paypal); al piano terra, ieri, nessuna scorta, sorveglianza discretissima, un camioncino bianco con targa diplomatica sta lì in mezzo alla strada mentre il personale russo continua a imbarcare scatoloni. Mano a mano che passano le ore arrivano curiosi e giornalisti. L’anchor della Nbc piazza il satellite e prova una diretta, stravolto dal caldo; un signore avvolto in una bandiera arcobaleno porta un cartello, “smettetela di ammazzare gay in Cecenia”; si chiama Michael Petrelis ed è un membro dell’associazione “Gay senza frontiere”. “Non capisco, erano così amici quei due, Trump e Putin, adesso si espellono i diplomatici a vicenda?”, dice al Foglio. Dice anche che gli imperturbabili facchini-diplomatici che portano le casse da ore vengono molestati da tutti i passanti (“che fate con la bandiera? La lasciate?”, “e l’antenna?” gli dice adesso un americanone che passa di lì, in bermuda, accaldato e sovreccitato). I poveri facchini non rispondono mai, mormorano solo qualcosa in russo, ma all’ennesima accusa hanno sbottato, “basta, non è vero che li ammazziamo, i gay in Cecenia!”, hanno detto, in inglese ma con forte accento, e poi hanno ricominciato a portare scatoloni, subito ricomposti, neanche una goccia di sudore. Alle sei e mezza arriva un altro carico di cartoni con marchio Home Depot ancora piatti, da riempire, mentre all’angolo del palazzo in una via completamente occupata dalle macchine consolari, saranno una ventina, si sentono risa e urla dagli uffici, evidentemente il personale non è così preoccupato.
Agenti russi che caricano gli scatoloni pic.twitter.com/gCRWD43jaP
— Michele Masneri (@michimas) 2 settembre 2017
L’ambasciatore russo in America Anatoly Antonov (appena nominato, arrivato due giorni fa, sarà felice di prendersi questa bella grana) ha detto, ancora in aeroporto, che “la prossima mossa sarà fredda, ponderata e professionale”, perché, “come diceva Lenin, non abbiamo bisogno di istinti isterici”. Quindi non ci saranno bombardamenti russi sulla Silicon Valley, è già qualcosa (mentre qui rientriamo però nella gittata coreana, sono tempi interessanti).
Qui a Green Street passano intanto vicini di casa, in questi Parioli sanfranciscani deserti. Si fanno selfie, un ragazzo di un giornale russo fa una diretta su Facebook. “Lo vedi quell’aereo qui sopra? E’ un aereo spia”, dice al Foglio convinto John Ennis, ragazzotto giornalista del “The American river currents”, tipo giornale della sua high school. “E’ tutto il giorno che gira”. E come fai a sapere che è un aereo spia? “Perché sulla mappa degli aerei in volo su San Francisco non c’è, guarda”, e mostra una app. Insomma, si è in piena House of Cards, però in una atmosfera da Sorpasso, con mitomani a piede libero in questa specie di Ferragosto sanfranciscano torrido, la città surreale e questi facchini molto dignitosi che caricano gli scatoloni. All’angolo, dei ragazzi chiacchierano, sono russi. Qualcuno si lamenta che gli serviva il visto per tornare a casa, e adesso come si fa. Sergey, una ventina d’anni, è a San Francisco per una conferenza della American Political Scientist Association, ci dice solo il nome di battesimo perché è russo e non si sa mai. “Io non sono certo per Putin” dice, “però come contromisura pare un po’ esagerata, e oltretutto in ritardo”. Anche la precedente ritorsione di Mosca pare stramba, quella di cacciare 755 dipendenti delle ambasciate americane in Russia. “Il fatto è che erano quasi tutti contrattisti russi, dunque mi pare una mossa un po’ masochista” commenta il nostro politologo sotto la calura. Forse si comprendono meglio le parole del nuovo ambasciatore sulle prossime mosse non isteriche bensì professionali della diplomazia.
Intanto si decifra questa qua, di mossa. Ci sono varie teorie: San Francisco potrebbe essere stata scelta come capitale della Silicon Valley e dunque simbolicamente come ritorsione per il ruolo, vero o presunto, avuto da Mosca nelle elezioni, in chiave cyber, fake news, eccetera. C’è però chi sottolinea come Usa e Russia fossero squilibrate come reciprocità consolare; la Russia ha 4 sedi in America (oltre a San Francisco c’è New York, Houston e Seattle, mentre l’America ne ha solo tre. Dunque – spiega al Foglio un diplomatico – la situazione torna solo ora ad essere in parità). E potrebbe così trattarsi solo di una astuta azione diversiva per dimostrare il polso fermo dell’Amministrazione Trump contro i presunti amici ex sovietici, mentre si distoglie da altre questioni, si riorganizza l’organico, eccetera (intanto i dipendenti andranno a Seattle, al fresco, la sede di Houston non pare il caso, al momento).
Di certo però l’avamposto in Silicon Valley è strategico. Qui opera una folta comunità russa di imprenditori: sono russi o di origine russa Sergey Brin, fondatore di Google; sono ucraini Jan Koum, cofondatore di Whatsapp, e Max Levchin, cofondatore di Paypal. Russa anche la nuova star delle criptomonete, il ventitreenne Vitalik Buterin, che ha inventato l’alternativa al Bitcoin, la moneta Ethereum, su cui Putin ultimamente punta molto anche per superare le sanzioni americane.
Inoltre Mosca ha da poco creato in città un enorme acceleratore nazionale di startup: creato da GVA Capital, fondo di investimento che fa capo a Pavel Cherkashin, ex manager di Adobe e Microsoft; nel novembre scorso ha comperato la chiesa (cattolica) di Nostra signora di Guadalupe per 7 milioni di dollari e l’ha trasformata in un incubatore, mantenendo dentro altare e tutto. E’ l’incubatore più grosso e bizzarro della città.
Se poi si fa attenzione ai simboli, al Foglio raccontano che il consolato russo è l’unico ad avere a San Francisco un parcheggio riservato, in una città in cui il posto-macchina è risorsa rarissima, non ce l’ha neanche Mark Zuckerberg. Infatti la strada laterale alla palazzina anche oggi è completamente occupata da una ventina di auto scure con targa consolare. Una cosa inaudita, da centro storico romano: il comune da anni lotta contro l’occupazione di suolo pubblico (con un numero oltretutto enorme di vetture, senza paragoni). Ma invano. Così i vicini adesso saranno contenti: al calare del fumo, al ritorno dal weekend, non ci saranno più i russi ma trovare parcheggio sarà molto più semplice.