L'Italia è (ancora) una base per le attività illecite della Corea del Nord
I movimenti per eludere le sanzioni. Quel che abbiamo scoperto sui rapporti tra la First Eastern Bank e la società Unaforte
Dalla nostra inviata a Tokyo. C’è l’Italia, ancora una volta, a fare da base per alcune delle attività illecite della Corea del nord. C’è l’Italia e c’è l’incapacità di controllare tutti i pezzi, e di agire legalmente contro il sofisticato sistema di elusione delle sanzioni messo in piedi dal regime di Pyongyang. Quattro giorni fa è stato pubblicato l’ultimo report del panel di esperti delle Nazioni Unite che si occupa di investigare periodicamente l’efficacia delle sanzioni economiche che la comunità internazionale ha posto sin dal 2006 contro la Corea del nord: nelle centoundici pagine, ricche di informazioni, si dà conto del probabile traffico d’armi di Pyongyang con la Siria, dei rapporti di collaborazione con l’Angola, il Congo, l’Eritrea, il Mozambico, la Namibia, l’Uganda (l’Africa è terreno fertile per i traffici nordcoreani: costruisce statue, addestra truppe, vende armi tramite compagnie dalla difficile individuazione). Sotto il capitolo sulle transazioni finanziarie – il nodo cruciale per evitare il finanziamento dell’arsenale missilistico e nucleare nordcoreano, nonostante l’embargo – l’Onu torna a parlare di Kim Su-gwang, ex dipendente della Fao con residenza a Roma.
Il Foglio si era occupato della sua storia nel marzo del 2015: Kim era uno dei tre cittadini nordcoreani cui nel 2014 il ministero delle Finanze francese decise di congelare i beni. Secondo Parigi, Kim Su-gwang, suo padre Kim Yong-Nam (dipendente dell’Unesco) e sua sorella Kim Su-Gyong (per molto tempo residente a Parigi e ora funzionaria di un istituto bancario a Pyongyang) fanno parte del Reconnaissance General Bureau, il centro di comando dei servizi segreti nordcoreani. Per dodici anni Kim Su-gwang ha lavorato sotto copertura alla Fao di Roma con i privilegi di un passaporto diplomatico, ma dal momento in cui, nel 2014, Parigi fa il suo nome come membro di una rete d’intelligence nordcoreana infiltrata nelle istituzioni dell’Onu in Europa, fino a quando il ministero degli Esteri di Roma non sospende il passaporto di Kim, passa quasi un anno. C’è di più. Secondo l’ultimo rapporto del panel di esperti dell’Onu, anche dopo il licenziamento di Kim Su-gwang e l’annullamento dei suoi privilegi diplomatici, “numerosi” conti correnti bancari che aveva aperto in Italia sono rimasti aperti. Uno di questi è cointestato con la moglie, e a tutt’oggi sembra essere attivo. Tra il 2011 e il 2016 da un altro conto corrente, si legge nel report, passano numerose transazioni, che l’Italia giustifica come attività di “un consumatore privato”. Altri conti restano dormienti. “Kim ha anche acquistato una proprietà in Italia che è ancora a suo nome”, scrive il panel di esperti, aggiungendo che “altre indagini sono in corso”.
In allegato al report, l’Onu pubblica una decina di documenti d’identità di Kim Su-gwang, quasi tutti con una traslitterazione diversa del nome, che è uno degli escamotage dei nordcoreani per evitare l’identificazione. Come anticipato dal Foglio nel 2015, il badge della Fao conferma che Kim lavorava nell’ufficio dell’Information technology. Le numerose carte d’identità rilasciate dal ministero degli Esteri italiano confermano che durante la sua lunga permanenza in Italia, Kim ha avuto due figli, nel 2005 e nel 2007. La residenza della famiglia Kim, si legge in uno dei documenti, era a via Muraglia 84, a una dozzina di minuti a piedi dall’ambasciata nordcoreana a Roma di viale dell’Esperanto. Il problema, secondo la commissione dell’Onu, è questo: i nordcoreani utilizzano i famigliari per aprire conti correnti in Europa, e non ci sarebbero vie legali per avere accesso a quei conti, anche a causa dei privilegi dello status diplomatico che si applica sia agli accreditati di un’ambasciata (e l’Italia ha appena accolto il nuovo ambasciatore nordcoreano a Roma, che ha uno staff di quattro persone) sia ai dipendenti delle organizzazioni internazionali. L’unità di Informazione della Banca d’Italia funziona solo su segnalazione: devono essere i singoli istituti di credito a segnalare la presenza di un account nordcoreano in una determinata banca, e non esiste un sistema di raccolta di informazioni coordinato.
Resta da capire perché una spia nordcoreana licenziata dalla Fao e sospesa dal cerimoniale della Farnesina abbia potuto continuare a far transitare denaro in Italia. L’Onu adesso raccomanda agli stati membri di limitare il numero di conti correnti di diplomatici nordcoreani residenti all’estero, di assicurarsi che non vengano aperti altri conti a nome di famigliari e che quegli stessi conti correnti siano chiusi al termine della missione.
L’altro punto fondamentale del report riguarda le banche nordcoreane: “Gli stati membri sono obbligati ad adottare le misure necessarie per chiudere filiali e uffici di rappresentanza degli istituti di credito nordcoreani, e di includere nei provvedimenti anche gli individui e gli enti che agiscono de facto per lo stesso scopo”. Ancora una volta, i coni d’ombra della burocrazia e dell’intelligence finanziaria italiana sono terreno fertile per certi traffici di Pyongyang. Tra le banche nordcoreane sotto la lente d’osservazione dell’Onu c’è la First Eastern Bank, che ha sede a Rason (si pronuncia naseon), una città portuale del nord-est della penisola al confine con la Cina e molto vicina via mare anche a Vladivostok – la Zona economica speciale di Rason è una delle più ricche del paese, da anni luogo naturale dei traffici tra Corea del nord, Cina e Russia. Il panel di esperti dell’Onu si è occupato per la prima volta della First Eastern Bank nel report pubblicato a febbraio di quest’anno. Si tratta di un istituto autorizzato da Pyongyang, con una sede a Hong Kong e una nella prefettura cinese di Yanbian, al confine con Rason, fondata nel 2014 per concedere prestiti a società straniere che volessero investire “in progetti minerari o immobiliari” in Corea del nord. La First Eastern Bank risulta di proprietà di una società di Hong Kong che si chiama Unaforte. Dai documenti di registrazione della società a Rason, pubblicati dal report dell’Onu – ma anche da una semplice ricerca su Google – si evince che il nome completo della società è Italy Unaforte Limited Co., e che la società è attiva anche nella manufattura e nell’import-export di gioielli (attenzione: i beni di lusso sono sotto embargo per la Corea del nord). Fino al maggio scorso il sito di Unaforte (che comprende Unaforte.com, Unaforte.ch e Unaforte.it, identici ma in inglese, cinese e un italiano zoppicante) era piuttosto scarno: una gallery con alcuni gioielli senza un ragguaglio su come effettivamente acquistarli, poche informazioni, ma un chiaro riferimento al “made in Italy” e lo stesso indirizzo di comodo della società di Hong Kong che – come dimostrato dal report dell’Onu – possiede la First Eastern Bank: la stanza 2103 del palazzo commerciale Easey , 253-261 di Hennessy road, Wan Chai, Hong Kong. Nel maggio scorso il sito di Italy Unaforte è completamente cambiato: la versione in italiano, in particolare, colpisce per la proprietà di linguaggio, inusuale per un’attività del genere. E infatti sotto la scritta “made in Italy” si legge: “Unaforte nasce negli anni Settanta, nel più importante distretto dell’oreficeria, in un momento di grande fermento ed evoluzione per l’industria, l’artigianato e il design del gioiello. Tutto ha inizio, allora, con Paolo, il nostro fondatore, e un piccolo laboratorio dedicato alle creazioni personalizzate”. Chi è Paolo? Il proprietario del dominio Unaforte.it risulta Paolo Ferrarese, che ne è possessore proprio dal maggio scorso. L’indirizzo risulta a Lonigo, in provincia di Vicenza, e corrisponde alla descrizione data sul sito, che spiega: “Unaforte nasce tra Venezia e Verona”. In effetti, secondo più fonti, Paolo Ferrarese risulta sales manager della DiBi spa, azienda di Cassola, pronvincia di Vicenza. Fondata nel 1981, la DiBi, secondo la Confindustria di Vicenza, si occupa di “fabbricazione di oggetti di gioielleria e oreficeria in metalli preziosi o rivestiti di metalli preziosi”. La DiBi di Vicenza è attiva nel mercato asiatico, in particolare il 15 settembre parteciperà alla Fiera della gioielleria di Hong Kong. Sin dal 2014, invece, la Unaforte viene indicata da più parti – perfino dalla Kcna, l’agenzia di stampa ufficiale nordcoreana – come una delle pochissime aziende italiane presenti con uno stand all’annuale fiera internazionale del commercio di Rason, l’evento del business import-export nordcoreano. Ad agosto ha aperto un negozio in un centro commerciale di Guangzhou, in Cina. Il Foglio non è riuscito a contattare direttamente la DiBi spa né Paolo Ferrarese per sapere cosa effettivamente sappia il lato italiano di quel che accade a Hong Kong con la Corea del nord.