Hezbollah più forte che mai
Sembrava che la guerra civile in Siria avesse indebolito il gruppo libanese, invece l’ha trasformato in un esercito puntato contro Israele. Avviso per i fan della stabilità assadista
È l’agosto 2013, subito dopo una strage di civili con armi chimiche alla periferia di Damasco, e lo stratega Edward Luttwak scrive un editoriale sul New York Times in cui sostiene che la scelta migliore per l’America è restare fuori dalla guerra civile siriana: la situazione è perfetta per noi (americani), argomenta Luttwak, perché al Qaida e Hezbollah sono entrambi nostri nemici e si stanno scannando tra loro, quindi lasciamoli fare e più a lungo vanno avanti meglio sarà. Luttwak – che in Italia gode dello status di oracolo della realpolitik – omette di dire una cosa in quell’editoriale del New York Times, ed è questa: il ragionamento è passabilmente sensato per chi vive in America, quindi al riparo dalle conseguenze immediate della guerra civile siriana, ma non per chi vive in Europa a soltanto due ore di volo dal centro arroventato della violenza. E infatti negli anni successivi vedremo le conseguenze del conflitto (“che più va avanti e meglio è”) farsi sempre più vicine a noi: è difficile fare un elenco degli effetti orrendi che poi ci hanno toccato, ma ricordiamo tutti le immagini delle centinaia di migliaia di profughi siriani attraversare in colonna mezza Europa e le altre immagini delle stragi di Parigi e Bruxelles (compiute da attentatori dello Stato islamico addestrati in Siria). Ora che la guerra civile ha imboccato una fase terminale, che cosa è successo alle parti in lotta: si sono distrutte a vicenda? Anche in questo caso il risultato è diverso dalla previsioni, ci sono molti vincenti e ci sono molti perdenti. In cima al gruppo di chi vince c’è Hezbollah, che “è più forte di prima” – dice Qassim Qassir, un esperto libanese interpellato ieri da Associated Press. Gli analisti dicono che è come se in Siria il gruppo avesse fatto una cura rinvigorente, i suoi combattenti adesso sono veterani con alle spalle anni di esperienza in combattimenti diretti, sono equipaggiati come i soldati di un esercito moderno e sono utilizzati come “shock troop” durante le offensive, vale a dire che aprono la strada a tutti gli altri soldati – assai meno efficienti.
Prendiamo per esempio cosa è successo soltanto nell’ultimo mese. Nell’est della Siria un contingente hezbollah di due brigate (circa duemila uomini, non è dato sapere il numero esatto) ha fatto da avanguardia al corpo di spedizione assadista che ha rotto l’assedio della città di Deir Ezzor – era circondata dallo Stato islamico – mettendo fine al pericolo di vita immediato per novantamila assediati. E’ stata un’operazione gestita assieme ai russi, che hanno fornito i pontoni mobili usati per attraversare con i mezzi il fiume Eufrate e anche la copertura aerea con i bombardieri. Nel frattempo a ovest un altro contingente hezbollah ha disinfestato il massiccio montuoso del Qalamoun dalla presenza dello Stato islamico, che era arroccato lì da tre anni, e per evitare una resistenza fino all’ultimo uomo da parte dei quattrocento guerriglieri di al Baghdadi ha stretto un patto di evacuazione con loro: vi diamo alcuni bus, voi ci salite con le vostre famiglie, attraversate la Siria e raggiungete l’Iraq. La campagna sul Qalamoun è stata fatta insieme con l’esercito libanese, che è armato e addestrato dall’Amministrazione americana. Così, nelle stesse settimane di guerra, Hezbollah ha combattuto con i siriani appoggiati dai russi e con i libanesi appoggiati dagli americani. Poi il Pentagono in questa storia del Qalamoun ha avuto un ripensamento, ha provato a bloccare il convoglio dei guerriglieri diretto verso l’Iraq (il principio è corretto: quelli dello Stato islamico sono come scorie radioattive, continuano a fare danni per anni, dove li metti causano devastazione) e ha bombardato alcuni ponti davanti ai bus. Infine anche l’America ha convenuto che ormai non c’era altra soluzione che lasciare passare il convoglio (altrimenti avrebbe dovuto uccidere tutti: famiglie e guidatori dei bus). Il punto è che Hezbollah fa da attore protagonista in queste battaglie ed è al centro della scena: siriani, russi, iraniani, americani, tutti devono parlare con loro.
C’è da notare come per raccontare il ruolo di Hezbollah in questa guerra ormai si utilizzano parole che sono adatte a descrivere una forza regolare impegnata contro guerriglieri jihadisti. Ma Hezbollah fino a pochi anni fa era proprio questo: un gruppo di guerriglieri jihadisti. Il fondatore di al Qaida, Osama bin Laden, si è ispirato alla tattica del camion bomba guidato da un attentatore suicida inventata da Hezbollah, che nell’ottobre 1983 l’aveva usata per uccidere 241 marines e 58 paracadutisti francesi di stanza a Beirut come peacekeepers. Dopo la strage, i peacekeepers si ritirarono dal Libano e tutti i gruppi jihadisti presero nota dell’impatto enorme che si può ottenere con il sacrificio di un paio di guidatori suicidi. Trent’anni fa la reputazione del Partito di Dio non era molto dissimile da quella dello Stato islamico oggi – anche se c’è l’ovvia differenza che Hezbollah è sciita e lo Stato islamico sunnita. Poi ad alterare questa reputazione sono intervenuti altri passaggi.
C’è stata una fase recente in effetti in cui il Partito di Dio si è pentito con amarezza del suo ingresso al fianco del presidente Bashar el Assad nel tritacarne siriano, avvenuto nella seconda metà del 2012. C’è una regola non scritta che dice che la guerra in Siria punisce chi si avvicina troppo e il gruppo libanese non ha fatto eccezione. L’ultimo bilancio dice che ha perso più di millecento combattenti e l’emorragia non accenna a diminuire, ad agosto ci sono stati 28 morti (fonte Ali Alfone del think tank Atlantic Council, che conta con pazienza da cinque anni). Oltre al logoramento materiale c’era quello di immagine. Il gruppo che sparava nelle strade di Aleppo e vicino Damasco, contro altri arabi, era diventato materia di dileggio. “Non eravate quelli della Resistenza contro Israele? E allora che ci fate in Siria? Qui non ci sono sionisti. Non dovevate liberare al Quds, Gerusalemme? E’ più a sud, vi siete persi”. La sua natura di vassallo delle politiche iraniane non aveva più la protezione del confronto con Israele. Inoltre, a dispetto della preparazione militare, non riusciva a salvare Assad. E nemmeno ci stavano riuscendo gli stessi militari iraniani, arrivati in Siria un anno dopo, nel 2013. L’avventura a Damasco era una perdita secca e ci sono resoconti molto poco ufficiali di litigate furiose con i gerarchi di Assad, che da Hezbollah volevano ancora più sacrifici e ancora meno visibilità. Poi nel settembre 2015 sono arrivati i russi ed è cambiato tutto. L’intervento di Putin ha cambiato di segno a gran parte di quello che stava succedendo in Siria, dove c’era un segno meno è arrivato un segno più e viceversa. Il Partito di Dio che era impantanato in una guerra di controinsurrezione bestiale e che rischiava di uscirne a pezzi è finito dalla parte dei vincenti. Durante la battaglia per prendere Aleppo est gli ufficiali russi hanno cominciato a incontrare in pubblico i comandanti di Hezbollah (che è pur sempre un gruppo sulla lista americana del terrorismo. Controargomento pronto: anche gli americani collaborano con lo Ypg curdo, che è legato al Pkk, anche quello un gruppo sulla lista del terrorismo).
Un miliziano di Hezbollah (foto LaPresse)
Due giorni fa Hezbollah ha fatto alzare in volo un drone di fabbricazione iraniana da Damasco e l’ha fatto entrare in territorio israeliano. Metafora perfetta dello scenario mediorientale prossimo venturo – anzi già presentissimo. Hezbollah è il braccio armato dell’Iran e ora agisce dalla Siria, che è una piattaforma militare molto comoda e ampia in caso di guerra contro Israele. Gli israeliani al confine hanno abbattuto il drone con un missile Patriot di cinque metri di lunghezza, valore tre milioni di dollari, e anche questa risposta spiega molto bene lo scenario di guerra (è un episodio simile a quello raccontato a marzo da un generale americano, David Perkins, durante un simposio dell’esercito, senza citare Israele: “Un nostro alleato ha sparato un missile da tre milioni di dollari per abbattere un drone da 200 dollari”). Secondo gli analisti israeliani, Hezbollah e gli sponsor iraniani vogliono combattere la prossima guerra con attacchi a saturazione, una moltitudine di missili lanciati assieme dalla Siria e dal Libano verso bersagli dentro Israele in quantità così elevata da sopraffare le contromisure missilistiche. Israele è protetto da un ombrello di difesa che in teoria distrugge ogni missile nemico con un contro-missile in tempi così rapidi da azzerare il pericolo.
Ma cosa succede se il nemico usa la forza bruta della quantità e lancia troppi missili, troppi per essere fermati tutti? Questo timore degli sciami di missili è la spiegazione di molti dei cento raid aerei israeliani che a partire da gennaio 2013 hanno colpito installazioni e convogli di Hezbollah dentro la Siria. L’obiettivo è impoverire le scorte di missili, intralciare il trasferimento, ritardare l’accumulo e il raggiungimento di quella soglia di pericolo oltre la quale l’ombrello israeliano non riuscirà più a bloccare tutto. Inoltre, secondo gli esperti, gli ordigni di Hezbollah non sono più roba artigianale, sono armi precise, più pesanti e con gittata più lunga per incrementare la capacità di fare danni, in modo che quelli che sfuggono alla rete di intercettazione non finiscano a spegnersi fra le colline, ma colpiscano bersagli paganti come le città. Mentre il resto del mondo osserva la guerra contro lo Stato islamico, Israele svuota le scorte di missili di Hezbollah in Siria e Hezbollah le riempie di nuovo. E’ lecito supporre che l’intelligence israeliana non riesca a vedere proprio tutto e che la joint venture Iran-Damasco-Hezbollah sia in vantaggio, altrimenti i raid aerei non continuerebbero a questo ritmo.
Il complesso militare industriale in Siria cresce ed è più esteso delle operazioni per contrastarlo. Quando c’è maltempo i camion possono spostarsi sulle strade, gli aerei non possono levarsi in volo. Una settimana fa i jet israeliani hanno bombardato uno stabilimento per la produzione di armi nel nord della Siria dove lavorava anche personale iraniano, ed era un sito che faceva parte anche del programma chimico. Del resto stiamo parlando della Siria, il paese che nel settembre 2013 aveva detto alla comunità internazionale di avere consegnato tutto l’arsenale chimico e che poi il 4 aprile ha lanciato una bomba al sarin contro un villaggio ribelle. Secondo una notizia apparsa sul sito francese Intelligence Online a luglio, Hezbollah ha anche due fabbriche militari in Libano, una nella Beqaa libanese per produrre il razzo al Fatah 110 e l’altra per produrre munizioni tra Tiro e Sidone.
Il problema è che prima Hezbollah aveva a disposizione soltanto il sud del Libano per fare la guerra, ora ha quasi tutta la Siria. Prima il terreno di gioco era quel pezzo di Libano a sud che s’incunea verso Israele, ora è tutta la linea di confine del Golan. Questo vale per le squadre di fuoco che prima sparano i missili contro Israele e poi si nascondono prima di essere visti dai jet, e vale anche per la logistica. Oggi i rifornimenti non devono essere più contrabbandati in Libano di soppiatto, atterrano alla luce del giorno sulle piste dell’aeroporto internazionale di Damasco – nelle stive di voli passeggeri, che non possono essere abbattuti. Oppure attraccano ai moli militari dei porti di Tartous e Latakia, al riparo da sguardi curiosi. Se prima la guerra era difficile, ora la difficoltà è aumentata di qualche ordine di grandezza. Israele ha chiesto per favore ai russi di garantire una fascia di rispetto di circa sessanta chilometri a partire dal confine, niente Hezbollah oppure iraniani, ma i russi hanno ridotto questa fascia a cinque chilometri – che contano zero in una guerra moderna. Da poco hanno trasportato alcuni uomini di Hezbollah a Quneitra, città siriana a ridosso delle alture del Golan. Chi scrive l’ha osservata l’anno scorso dall’altro lato del confine: da una postazione dell’esercito israeliano la si vede a portata di mano, adagiata nella pianura che comincia subito dopo una ripida discesa erbosa oltre i reticolati, così vicina che si vedono le macchine andare e venire tra gli edifici. Un po’ oltre la portata di un fucile.
Militari di Hezbollah sparano contro postazioni dello Stato islamico in Siria, nella regione di Qalamoun (foto LaPresse)
Tre giorni fa la rivista americana Atlantic ha pubblicato un pezzo in cui racconta “la hybris di Hezbollah”, è firmato da Andew Exum, ex consigliere militare americano che ha studiato a Beirut. La tesi è che a volte anche soltanto il gesto di accumulare e ammodernare un arsenale equivale a una dichiarazione di guerra contro i vicini e che il fatto che Hezbollah stia acquisendo le capacità per cominciare e continuare un conflitto contro Israele verrà letto inevitabilmente da Israele come un casus belli. E’ una linea rossa perché oltre una certa soglia di armamento l’inazione diventerà più pericolosa e costosa dell’azione e quindi è soltanto questione di tempo prima che cominci il secondo tempo della guerra tra Hezbollah e Israele sospesa nell’estate 2006. Approfittare della guerra civile siriana per diventare un’arma puntata contro Gerusalemme è una strategia quasi suicida e per questo il titolo parla di hybris, l’arroganza che nelle tragedie greche porta alla rovina.
Mentre il mondo parla del deal atomico dell’Iran e alle Nazioni Unite il presidente iraniano Hassan Rohani dice che il suo paese “risponderà in modo determinato e decisivo a qualsiasi violazione dell’accordo” e mentre il presidente americano Donald Trump sostiene di avere preso già una decisione su quel dossier, senza però dire quale, si alza il rischio di una guerra convenzionale e che potrebbe essere catastrofica. Exum nota che questa volta il gruppo libanese ha sparpagliato le sue postazioni in tutto il paese e che quindi c’è il rischio, anzi la certezza, di danni molto più gravi e profondi di quelli di undici anni fa, senza contare le basi in Siria. Exum non fa che un accenno, ma si riferisce alla cosiddetta dottrina Dahiye, che è quella correntemente adottata dall’esercito israeliano come risposta di default in caso di guerra contro Hezbollah e che prevede la distruzione deliberata e punitiva di tutte le infrastrutture che sostengono il nemico, anche in zone civili, per dare un colpo di grazia e assicurarsi che non ci siano nuove riprese e ulteriori capitoli di un conflitto infinito. Il nome viene dal quartiere di Dahiye, nella parte meridionale di Beirut, che fa da base per Hezbollah e che nel 2006 fu quasi raso al suolo.
Questo scenario, tuttavia, è come se fosse ancora ignorato dall’opinione pubblica, anche perché i contendenti sono stati bravi a tenerlo sottotraccia. Non per questo è meno probabile. Nel prossimo futuro il presidente siriano Bashar el Assad, che oggi da alcuni è considerato un bastone di solidità, potrebbe tornare a essere il centro del problema, perché è l’incubatore consenziente di un conflitto esplosivo. Allora forse si assisterà a un cambio repentino di posizione da parte di chi – per esempio una delegazione di politici italiani appena stata in visita a Damasco e Aleppo – sta ancora celebrando i fasti della finta “stabilità” assadista. Per tornare all'assunto di Edward Luttwak: no, non siamo più al sicuro, non ci si salva se si lascia che i nemici si scannino tra di loro.
L'editoriale dell'elefantino