Emmanuel Macron all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite

Per salvare il deal iraniano, Macron sfrutta l'isolamento di Trump

Francesco Maselli

“Non rispettare l’accordo è da irresponsabili”, ha detto il presidente francese dal palco di New York

Roma. L’accordo sul nucleare iraniano è stato al centro del dibattito di questa settimana all’assemblea generale delle Nazioni Unite insieme alla Corea del nord. Gli Stati Uniti, che nel 2015, a Vienna, avevano siglato l’accordo con Teheran insieme agli altri paesi del Consiglio di Sicurezza più la Germania, potrebbero ritirarsi. Il presidente Donald Trump non ha mai fatto mistero di non gradire il deal iraniano ma non aveva, finora, compiuto passi decisivi per rivederlo. L’accordo si è dunque sviluppato nel tempo, con un sollevamento delle sanzioni al regime iraniano che ha permesso grandi investimenti stranieri – soprattutto europei – e senza un contestuale e dettagliato controllo di quel che Teheran sta facendo con il suo programmo atomico (di test missilistici invece ne abbiamo visti parecchi). Aniseh Bassiri Tabrizi, ricercatrice esperta di Iran allo Royal United Services Institute for Defence and Security Studies, spiega al Foglio che il cambio di passo di Trump preoccupa le altre parti coinvolte nel negoziato, soprattutto gli europei: “L’America è l’unico attore che vuole rimettere in discussione l’accordo. I negoziati sono durati dodici anni, tutti hanno rinunciato a qualcosa. Non c’era altra strada possibile e nessuno vuole ripartire da zero”.

   

Il cambiamento di approccio da parte degli Stati Uniti, acuito dal discorso di Donald Trump all’Assemblea generale, favorisce naturalmente la leadership francese di Emmanuel Macron. La Francia ha messo da parte le sue perplessità sull’accordo – che in fase di negoziato furono molte – e si propone come principale garante del deal che, se fosse rimesso in discussione, creerebbe “una Corea del nord in medio oriente”, come ha detto lunedì il presidente francese al suo collega americano. “La posizione di Macron è coerente con la storia francese” dice al Foglio Thierry Coville, ricercatore all’Institut de relations internationales et stratégiques di Parigi, “la Francia si è sempre considerata come un ponte tra diverse culture, ed è su questa linea che il presidente intende muoversi. Certo, esistono enormi interessi economici che spingono al dialogo con i persiani, ma la posizione francese è anche figlia della retorica gollista del presidente”.

   

I francesi sono preoccupati dall’atteggiamento americano anche perché rischia di indebolire la posizione di Hassan Rohani, rieletto quest’anno presidente e considerato un “moderato”: “È difficile prevedere la reazione iraniana, ma la chiusura di Trump favorisce gli integralisti: le guardie rivoluzionarie, vicine all’ayatollah Khamenei, hanno sempre sostenuto, in modo strumentale, che non ci si poteva fidare degli americani; Trump conferma il loro punto di vista”, dice Bassiri Tabrizi. Dopo aver incontrato Trump, Macron ha passato tre quarti d’ora con Rohani per ribadirgli la sua posizione: a Parigi sono consapevoli che l’Iran è un partner non del tutto affidabile, ma allo stesso tempo sono convinti che l’accordo sia necessario per evitare una corsa agli armamenti atomici in medio oriente.

  

“Non rispettare l’accordo è da irresponsabili”, ha detto Macron dal palco di New York. Il presidente francese ha delineato il ruolo del suo paese nel nuovo “multilateralismo” su cui si basano le relazioni internazionali dopo l’elezione di Trump. Al di là del merito della questione, per Macron il vuoto di potere è un’occasione: se non c’è più una sola potenza egemone allora il ruolo della Francia in quanto potenza nucleare e membro del Consiglio di sicurezza cambia, ed è più rilevante rispetto al passato. Ecco perché il presidente si rivende come pontiere, capace di dialogare con tutti: “Il miglior modo per collaborare è dirsi tutto, specialmente se le opinioni sono diverse”, ha ripetuto più volte. L’accordo iraniano resta comunque fragile: per i paesi della regione è difficile ignorare l’ascesa persiana, il suo contributo alla guerra in Siria e l’influenza sempre maggiore in Iraq e in Afghanistan.

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