Quello che Zuckerberg non ha detto sulla Russia pesa più delle aperture al Congresso
Facebook fa il social con la trasparenza degli altri
New York. A dispetto dell’apparente naturalezza con cui Mark Zuckerberg ha dato l’annuncio, la diretta Facebook che ha fatto giovedì a proposito delle interferenze russe sulle elezioni è stata probabilmente la comunicazione più difficile da quando esiste il social network. Era il messaggio di un ceo logorato da dieci mesi di intensa pressione del Congresso per fornire tutti i dati che ha a disposizione sui troll russi a cui ha inavvertitamente venduto spazi pubblicitari, partita che contiene una minaccia esistenziale per Facebook. Accettare di aprire per una volta la porta alle autorità, e magari di testimoniare davanti a una commissione in forma pubblica, significa sottomettere per sempre le proprie operazioni allo scrutinio della legge. E questo non vale soltanto per una singola azienda. Una volta aperta la breccia nell’argine sarebbe complicato sostenere che ciò che vale per Facebook non vale per Google o Apple. Così il bel discorso idealista di Zuck che, disgustato dalle intrusioni del nemico, non vuole “che nessuno usi i nostri strumenti per danneggiare la nostra democrazia” è in realtà il frutto di un compromesso, l’esito di una trattativa con le autorità che ha tutta l’aria di un ottimo modo per pararsi gli interessi.
Facebook fa bella mostra di fare molte concessioni e dare garanzie agli inquirenti con i “nove passi” per raddrizzare la condotta. Zuck darà al Congresso i tremila ads comprati da account riconducibili al Cremlino, estenderà le ricerche sulle infiltrazioni politiche, pubblicherà i nomi degli acquirenti, potenzierà i sistemi che moderano le pubblicità, farà assumere 250 persone dedicate alla verifica delle integrità dei messaggi politici, stringerà alleanze con le commissioni elettorali e con gli specialisti di cyberterrorismo, produrrà versioni elettorali dei suoi potenti strumenti anti bullismo e farà molti altri gesti di buona volontà, pur di non testimoniare pubblicamente davanti al Congresso. Queste concessioni sono merce di scambio per evitare di dover rispondere sotto giuramento alle domande di una commissione in cui democratici e repubblicani sono ugualmente imbufaliti. I membri della commissione intelligence del Senato hanno accolto con freddezza quella che Facebook ha presentato come un solenne gesto di trasparenza.
Il senatore Mark Warner ha detto che è soltanto “il primo passo”, mentre il suo omologo alla Camera, Adam Schiff ha spiegato che una commissione dovrebbe anche poter indagare su “quanto è stata rigorosa l’inchiesta interna di Facebook”. Zuck infatti non ha detto una parola né ha offerto dati sulla conduzione dell’indagine interna. Il ritrovamento di soltanto di 470 account fasulli che hanno comprato tremila ads, ad esempio, non passa lo “smell test” del mastino Warner, il quale ha fatto notare che durante la campagna elettorale francese sono stati rimossi 30 mila ads collegati alla Russia. Quel che più conta è che il ceo di Facebook non ha accettato di testimoniare al Congresso, che è quello che Washington chiede a gran voce da quando si è scoperto che i regimi illiberali sono bravi quanto quelli liberali, e spesso anche di più, ad usare le infinite potenzialità manipolatrici dei social. Quel che è peggio è che la storia dei fake russi che acquistano messaggi politici per le elezioni altrui passano facilmente i controlli di Facebook, che si era già costruita la fama di inflessibile vigilante dei contenuti censurando il politicamente scorretto. Approfittando del clima di confusione, Donald Trump ha twittato: “La bufala russa continua, adesso tocca agli ads su Facebook. E la copertura disonesta e viziata fatta dai media in favore della corrotta Hillary?”. Un messaggio che sembra negare non soltanto la sua intesa con Putin, ma anche che il Cremlino abbia messo lo zampino nelle elezioni.