Jihad improvvisato
Gli ultimi attentati sono meno letali e scoordinati perché lo Stato islamico è più debole
Lo Stato islamico ha rivendicato l’attentato contro la metropolitana di Londra di venerdì 15 settembre alla fermata Parsons Green. Vi sono due modi di valutare le capacità offensive di un’organizzazione jihadista nelle città europee. Il primo è basato sulla propaganda dei terroristi e, di conseguenza, sulle nostre paure. Quando avviene un attentato, le organizzazioni terroristiche appaiono sempre fortissime e imbattibili. I commentatori che valutano in base alla paura affermano che, se i terroristi non colpiscono per molti mesi, o addirittura per anni, ciò accade perché hanno scelto di non colpire. L’idea di fondo è che i terroristi scelgono, in base a una strategia precisa, di allungare la nostra attesa per spaventarci di più. Coloro che sostengono questo approccio fanno ricorso al concetto di “cellula dormiente” con la quale si intende un piccolo gruppo di jihadisti pronti a entrare in azione al primo ordine. Il secondo modo di valutare le capacità offensive di un’organizzazione terroristica si basa sugli attentati che quell’organizzazione riesce effettivamente a realizzare, ovvero i suoi comportamenti manifesti. Questo criterio di valutazione non è utilizzato nel dibattito pubblico in Italia, ma è il metodo corretto.
Per comprendere il senso di questa affermazione, occorre sapere che le organizzazioni terroristiche sono in salute nella misura in cui riescono a uccidere copiosamente. Se smettono di uccidere; se fanno passare troppo tempo tra un attentato e l’altro; se realizzano attentati maldestri, come quello del 15 settembre a Londra, entrano nella categoria delle organizzazioni terroristiche fallimentari. Questa è la ragione per cui al Baghdadi e i suoi ministri invitano continuamente i musulmani d’Occidente a trasformarsi in kamikaze. Il loro motto non è: “Colpite ogni tanto”, bensì: “Colpite a più non posso”.
Il secondo modo di valutare le capacità offensive di un’organizzazione terroristica stabilisce che, quando lo Stato islamico non realizza attentati in Europa, è perché è stato incapace di realizzarli per tre ragioni: a) per mancanza di militanti; b) per mancanza di armi; c) perché è incapace di mettere i simpatizzanti in comunicazione tra loro. Approfondiamo questo concetto, tenendo sotto controllo la nostra emotività e utilizzando i dati.
La Gran Bretagna ha subito quattro attentati nel 2017: il 22 marzo sul ponte di Westminster; il 22 maggio a Manchester, durante il concerto di Ariana Grande; il 3 giugno sul London Bridge; il 15 settembre in un vagone della metropolitana di Londra. Tre attentati su quattro sono avvenuti a Londra, tuttavia gli attentatori non si conoscevano tra loro e, infatti, non erano in contatto. Anziché creare un’unica grande cellula, come quella che colpì Parigi il 13 novembre 2015, gli attentatori di Londra e il kamikaze di Manchester hanno agito da soli, ottenendo risultati relativamente scarsi rispetto alla strage di Parigi. I quattro attentati in Gran Bretagna del 2017 hanno causato molte meno vittime del singolo attentato del 13 novembre 2015 a Parigi. Grazie al secondo criterio di valutazione, appare evidente che lo Stati islamico non è in grado di mettere in comunicazione i propri simpatizzanti anche quando operano nella stessa città. Che lo Stato islamico, come tutte le organizzazioni terroristiche, abbia un interesse a uccidere i propri nemici a più non posso è dimostrato dagli attentati che realizza in Iraq. L’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss registra il numero di attentati realizzati in Iraq. La lista è talmene lunga da non poter essere riportata in questa sede per motivi di spazio. Basta ricordare che nel gennaio 2016, Baghdad, la capitale dell’Iraq, ha subito circa un attentato al giorno con automobili esplosive, che hanno causato la morte di 120 persone in un solo mese. Nel 2015, l’Iraq è stato il paese che ha subito più attentati al mondo, circa il 20 per cento del totale. Lo Stato islamico, da quando è entrato in azione fino al 31 dicembre 2016, ha ucciso, in Iraq, 11.000 persone. Liberi dalla paura, che offusca il ragionamento logico e rende più difficile la lotta dei governi contro il terrorismo, possiamo utilizzare alcune formule corrette per valutare le capacità offensive del Califfato nelle città europee. Le formule che propongo sono quattro: 1) “Lo Stato islamico uccide raramente, se non può uccidere tutti i giorni”; 2) “lo Stato islamico uccide poche persone, se non può ucciderne molte”; 3) “lo Stato islamico utilizza armi rudimentali, se non può utilizzare armi sofisticate”; 4) “lo Stato islamico utilizza pochi militanti, se non può utilizzarne molti”.
Il vero problema del dibattito pubblico sullo Stato islamico in Italia è che non esiste un dibattito pubblico sullo Stato islamico. Questo favorisce una crescita indiscriminata delle paure degli italiani, con conseguenze negative sulla qualità della vita dei cittadini, che vedono terroristi dappertutto. La colpa di questa povertà del dibattito pubblico italiano, che porta alcuni giornalisti a scagliarsi contro gli studiosi che propongono analisi oggettive, è interamente dell’università italiana che non ha mai coltivato seriamente lo studio scientifico del terrorismo islamico, come accade negli Stati Uniti, in Inghilterra e in molti altri paesi. In tutti i paesi sviluppati, l’università è il motore del progresso civile, scientifico e culturale. È giunto il momento che l’università italiana si appropri del proprio ruolo nella vita del paese. Questo richiede l’affermazione di una nuova generazione di rettori che siano in grado di comprendere la direzione del mutamento sociale e fare investimenti adeguati nei settori strategici del nostro paese.
*Direttore dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della LUISS