Bene la prosa tedesca. Adesso passiamo all'epica
Il pragmatismo prima o poi arriva a un redde rationem. La Germania dei prossimi quattro anni non può continuare a prosperare da sola in un mondo incasinato come questo
Ora che farà? La Germania, dico. Comunque sia composto il governo futuro, Berlino ha tre problemi davanti a sé: il benessere interno, l’Europa in relazione alla Francia e non solo, il mondo in relazione a Trump e alla Brexit, per quanto pentita o emendata. Sono questioni dipendenti una dall’altra. Dominate fino ad ora all’insegna del pragmatismo, che non è opportunismo, non è solo l’idraulico competente alla guida dello stato, come ha scritto ammirato Philip Stevens sul Ft, è un’ideologia come le altre, meglio delle altre, va detto. Un connotato tipico di una società aperta e di uno stato più forte di quanto non si pensi. I polsi della classe dirigente tedesca ora dovrebbero tremare, e credo tremino senz’altro. Anche noi italiani ed europei ci dobbiamo preoccupare. Ora che farà?
Nella storia europea del Novecento Germania fu sinonimo di catastrofe, dalla prima Grande Guerra alla Shoah. Imperialismo, sconfitta, illusioni repubblicane, iperinflazione, debito, riparazioni, Terzo Reich e totalitarismo nazista, e il seguito fino alla distruzione degli ebrei e all’autoannientamento politico ed economico dal quale è risorta. Ma è risorta, facendo come sempre fanno i tedeschi molto sul serio. Pragmatismo? L’idraulico? Non so, comunque i risultati sono importanti, definiscono una strategia ex-post meglio delle premesse generali, delle tesi precostituite. Debito? E’ un paese creditore tra i più forti al mondo, secondo credo solo alla Cina. Inflazione? Non sa più che cosa sia, non solo per via dell’euro, è l’euro che ha incorporato dal D-Mark l’allergia tedesca al mostro dell’inflazione. Ma nel mondo attuale non si vive di bilancia dei pagamenti iperattiva e di stabilità dei prezzi. Pierluigi Ciocca, economista e Linceo, economista umanista, in un magnifico saggio edito da Donzelli spiega parecchie cose. E Angelo Bolaffi, che la pensa diversamente da lui su un punto cruciale, la dialettica tra austerità e sviluppo in Germania e fuori, ma è anch’egli ferrato in quella strana scienza che è la germanistica, affaccia ipotesi molto interessanti su di un piano storico e politico.
La Germania dei prossimi quattro anni, quanto dura un mandato di Cancelliere, non può continuare a prosperare da sola. Non glielo consente la debolezza della domanda interna, degli investimenti in infrastrutture e tecnologia, una produttività non eccelsa del lavoro, un regime di salari troppo bassi nonostante tutto, una struttura dell’occupazione piena che ha le sue debolezze, il declino dello spirito renano nel sistema industriale, la conversione energetica, la debolezza dei consumi, gli stessi problemi generati dalla direzione quasi univoca delle migrazioni in Europa (“A Berlino! A Berlino!”). Ma non glielo consentono sopra tutto le alleanze euro-atlantiche in crisi dopo Trump, la Brexit anche soft, la devastazione mediorientale, i casini asiatici e le partnership monetarie e finanziarie e fiscali, che sono qualcosa di più delle alleanze in un’Unione monetaria interdipendente. Dovrà, la Germania, passare dalla prosa alla poesia, non dico lirica, a una poesia con un taglio un poco epico, un racconto che sia significativo per il sistema di integrazione che solo consente a tutti i paesi dell’area euro e alla Germania stessa di contare qualcosa nel mondo con il 12 per cento del pil, che ristretto ai soli tedeschi si riduce a un 3 per cento non così decisivo a fronte dei risultati cinesi, indiani e americani (con la sfida competitiva che comunque un Regno Unito extraunionista rappresenterà in futuro, costi quel che costi alla Gran Bretagna isolazionista e cosmopolita).
Può accadere. Nessuno lo sa, e non dipenderà dalla coalizione di governo. Dipenderà da chi la guida e dallo stato della nazione. Il pragmatismo prima o poi arriva a un redde rationem. Anche Helmut Kohl aveva una vena pragmatica, sembrava un salumiere del benessere occidentale della stazza di Ludwig Ehrard, ma è diventato un gigante dell’ovest e dell’est riunificati, l’ultimo del Novecento come scrive Bolaffi, perché la Germania fa la storia che a sua volta fa la Germania, è un circolo virtuoso o vizioso che tende a ripetersi. Anzi è un labirinto. C’è un momento della responsabilità, bisogna entrare in quello che Alain Finkielkraut definisce il “labirinto della responsabilità”. Kohl si seppe muovere al momento giusto nel labirinto e fu il centro propulsore di una svolta degli americani e degli europei vincitori della seconda Grande Guerra voluta e perduta dai tedeschi. Parliamo dell’89, duecento anni dopo la Rivoluzione francese, la caduta del Muro. Decisivo fu un presidente francese, François Mitterrand, con il suo proposito di scambio tra riunificazione della patria tedesca e nascita di una moneta unica (spiegateglielo voi a quei somari dei grillini e dei leghisti). Ora c’è un altro presidente francese in attesa attenta e vivace, e i risultati di una partnership tra le più classiche, seguita alla tradizionale inimicizia che si sa e che arrivò al termine della notte in molte occasioni macellaie, potrebbero essere importanti per tutti noi. Devono risolvere, i due, la questione della ricchezza integrata meglio, certo, ma per soprammercato la questione forza e della politica estera. La Germania si impegna a raggiungere il due per cento della spesa per la difesa entro pochi anni, il che è un’assoluta e fino a ieri impensabile novità. Ma ci vuol altro, e vale anche per un macronismo su questo piano fino ad ora troppo debole o sfuggente, per costruire un’identità imponente, collettiva, sopranazionale e tendenzialmente federativa, in un mondo incasinato come questo. Non basta lo spirito Erasmus, ovviamente.