Il grande inno alla gioia di Macron
Un super stato per rendere coeso un super mercato concorrenziale. Una seria e credibile ambizione di democrazia liberale. Un’Europa come potenza su scala mondiale. Il super discorso di Macron per una possibile rifondazione dell’Europa
Pensare che non ha ancora quarant’anni. Ma forse è proprio per questo. Ci vuole energia, ci vuole volontarismo, ci vuole sfacciataggine per dire certe cose, per proporre, come ha detto martedì in un lungo e magnifico discorso alla Sorbona Emmanuel Macron, la rifondazione dell’Europa, e per farlo in modo convincente e lucido a nome della Francia e dei popoli lasciati in disparte dal vecchio metodo delle élite illuminate e delle burocrazie impigrite, quella storia è finita, ha detto. Il banchiere Rothschild eletto a sorpresa capo del paese fondatore dell’Europa e dell’euro, da Robert Schuman e Jean Monnet a François Mitterrand, ha sfoderato una grinta indicibile per la sua lectio magistralis nel cuore della Parigi del sapere.
E la formula che ha trovato, a parte generosi e importanti dettagli di cui tra pochissimo, è questa: un super-stato per rendere coeso e convergente un super-mercato concorrenziale, differenziato ma unito da un’ambizione di democrazia liberale, potenza su scala mondiale, sovranità effettiva e cultura che è il meglio della storia a cui sono approdati cinquecento milioni di europei. Non ha solo proposto una procedura di medio termine, di qui al 2024 passando per le elezioni europee del 2019, che attivi da subito una serie di strumenti di cui si è già parlato abbastanza ma finora a vanvera: il superministro del bilancio, un bilancio comune robusto della zona euro nel segno dell’anticrisi e di un nuovo modello sociale, liste transnazionali che eleggano per adesso i settantatré deputati lasciati vacanti dalla Brexit e poi la metà del Parlamento di Strasburgo su liste transnazionali, un’agenzia europea per l’innovazione radicale, di rottura, nel campo decisivo del digitale e dell’intelligenza artificiale, un procuratore per il terrorismo e un procuratore per le guerre contro la slealtà commerciale, l’armonizzazione dell’imposta sulle imprese, del salario minimo, delle contribuzioni sociali sul lavoro, la revisione delle regole per i lavoratori distaccati, la tassazione dei GAFA ovvero i giganti del numérique (Google Apple Facebook Amazon), la difesa del diritto d’autore e della produzione di valore dove essa nasce e cresce nel nuovo mondo digitale, e altre decisive norme di semplificazione, non ultima la norma contro l’eccesso di norme, il profluvio di regolette inutili e uniformanti.
Ha affettato, proponendo cose concrete e rivoluzionarie, di fottersene però degli strumenti, dell’aspetto gestionario della costruzione europea, che l’ha sviata e l’ha esposta all’aggressione neonazionalista e populista. Il suo è stato un discorso volontaristico, umanistico, erasmiano, e non poteva essere diversamente, lo si era già visto con la sua campagna elettorale inaudita e con l’anticipazione presidenziale per la quale aveva scelto la cornice ateniese con il Partenone alle spalle. Alla Sorbona ha anche cercato di colmare un vuoto, la questione della forza, dell’esercito comune e di una comune politica estera, compresa la faccenda epocale delle migrazioni. Solo un francese che non ha ancora quarant’anni, e un’ambizione smisurata che caldamente lo divora, poteva avere la faccia per proporre, con umiltà e determinazione come ha detto, una zona euro sicura di sé che procede e costruisce le condizioni migliori di potenza, competitività e concorrenza internazionale con America e Cina, in attesa di essere raggiunta e integrata dagli altri, un cuore o nucleo dell’Europa raccordato dall’asse franco-tedesco in nome della pace schumaniana novecentesca e dei sogni del XXI secolo. Solo un tipo così poteva congedare le procedure elitarie d’antan, e optare per convenzioni democratiche nazionali su scala continentale, per il plurilinguismo e gli scambi come risorsa culturale, per la definizione coraggiosa di un’identità europea, da sanzionare fin dai licei e coronare con la fondazione di una catena di università, che parte dalle differenze e si radica nell’unità, nella democrazia e sopra tutto nella sovranità superstatale come opposizione agli scippi di governance e di potere che possono fare le logiche pure di mercato e i colossi americani e asiatici. Si vedeva che ci crede, ma non pareva un demagogo vero, di quelli che credono in ciò che dicono, pareva un uomo di stato e di superstato e di mercato di quelli che nascono in pochi in una o due generazioni.
Ai popoli e ai giovani ha detto: associatevi all’astrazione e all’ambizione invece di chiudervi nel particolarismo perdente dei confini nazionali e di protestare nella logica binaria del sì e del no pronunciati su testi incomprensibili, la logica referendaria invalsa fino ad oggi con cattivi risultati, prendete per voi le catene dell’Europa e fatene una intelaiatura protettiva e di libertà nella definizione di un destino. Ai dirigenti ha detto: guardate in faccia la realtà del nostro mondo, e capirete in un istante che non lo si può gestire, bisogna innovare e rifondarsi per starci dentro. Il fulcro del discorso politico è stato, a parte l’analisi particolareggiata e profonda della dimensione potenzialmente anomica, senza regole, di un mercato digitale fuori controllo, la legittimazione di convergenza, giustizia, unità, armonizzazione e in sostanza pianificazione sociale di mercato a scapito degli spiriti animali e della concorrenza sbrigliata e disaggregante del progetto europeo allo sbando. Lo volevano trovare, il giovane che secondo la vulgata bolivarista sta dalla parte dei ricchi e dei mercati, nel posto dove non si è fatto trovare, perché è presidente della Repubblica nata dal 14 luglio e perché non è uno sprovveduto, è uno che legge e sa lavorare in team: risultato un’ode alla civilizzazione, una grande paradossale apologia del riformismo burkeano a dispetto dei rousseauisti più o meno somari, con l’affermazione che bisogna disfarsi del naturel sauvage, del primitivismo naturale, e questo è effetto della molteplicità di lingue e culture che può essere non già la debolezza ma la forza dell’Europa di domani.
Il nostro piccolo Erasmo ha cantato il suo inno alla gioia. Ecco che cosa voleva dire quando si è definito jupitérien, gioviale. Voleva indicare tutto il suo aggressivo e intelligente ottimismo, con la sua capacità a due giorni dalle elezioni tedesche, mentre tutti si spencolano a prevedere che la linea rossa di sbarramento contro il bilancio comune dell’area euro tracciata dal liberale Christian Lindner, probabile futuro partner della Merkel, trionferà, di dire che non conosce linee rosse, ma solo orizzonti. Sarà anche un retore abile, ma è raro, dai tempi più rozzi ed eroici di Fidel Castro e di John Kennedy o di Ronald Reagan, ascoltare in diretta un discorso politico così intenso e sofisticato, così impegnato e disinvolto, così denso e propositivo. Certi licei, certe università, certi collegi non sono stati inutili, si vede. Ne faranno polpette, non si sa, ma se ce la facesse anche solo per il dieci per cento, la rifondazione d’Europa in un mondo sempre più cane diventerebbe una prospettiva ravvicinata, il che non è poco.