Un leader fuori dal mondo
Il discorso di Corbyn al congresso del Labour era una via di mezzo tra la bimba che ruba i popcorn al principe Harry e la blogger che dice di essere guarita dal cancro eliminando i latticini. Sembrava di stare su Marte. Eppure per qualcuno è credibile
Il discorso di Jeremy Corbyn al congresso del Labour, la sua ode al socialismo di stato, ai fitti bloccati, alle nazionalizzazioni, all’imposizione fiscale come leva di una nuova giustizia pianificata, cioè della nota miseria sociale già sperimentata, era una cosa a metà tra la bambina che ruba i popcorn al principe Harry e la blogger vegana che in Australia dice di essersi curata il cancro al cervello eliminando i latticini. Tenero, capace di cantare happy birthday a una compagna infestata dai troll, e fuori dal mondo. Perfino Theresa May, che non risulta un fulmine di guerra e ha fatto di tutto insieme con Boris Johnson per consegnargli il potere, è stata in grado di rispondergli con una onesta lode del capitalismo.
Eppure l’Economist e il Wall Street Journal, liberali e conservatori sulle piazze di Londra e New York, gli danno corda e sostengono che la sua pretesa di essere il capo di un governo in attesa, di esprimere il nuovo senso comune vincente, il nuovo mainstream, non è sprovvista di senso. Un anno fa Corbyn era un paria della sinistra mondiale, e dello stesso Labour, uno che ricorreva alla più spietata demagogia per restare in sella di fronte alle critiche dell’ala riformista del suo partito, perché chiudeva con un sipario di ferro, anzi di latta, la stagione forte del New Labour, quella di Tony Blair e Gordon Brown, che aveva portato a tre vittorie consecutive contro i conservatori e aveva dato un peso e un senso al Regno Unito in Europa e nel mondo, prolungando su altre basi la stagione neoliberale inaugurata da Lady Thatcher nel 1979. E invece, si dice, è tornato Arthur Scargill, l’epico sindacalista dei minatori che diede del filo da torcere alla premier britannica, prima di soccombere con il suo vecchio mondo, e adesso il fantasma di Arthur si fa vivo come nuovo senso comune. Ma che sta succedendo?
Corbyn non ha scrupoli, ha preso la Grenfell Tower, il grattacielo abitato da povera gente andato a fuoco a Londra a pochi passi dalla rampante Notting Hill, come simbolo di un ordine neoliberale spezzato. E ha detto che con la crisi del 2008 proletari e classi subalterne hanno ripreso voce nella lotta millenaria contro la diseguaglianza. E’ il loro momento. Hanno bisogno di un programma socialista, e – ha aggiunto – del mercato unico europeo. Gli inglesi sono bizzarri, si sa. Ma a seguire il discorso di Emmanuel Macron sul mondo com’è e come potrà essere in futuro, e sull’Europa e sulle riforme necessarie, sembrava di stare in terra, alla Sorbona, qui da Corbyn sembrava di stare su Marte. Comunisti su Marte, avrebbe ironizzato Corrado Guzzanti. Perché è credibile?
Corbyn parlava come si dice ai convertiti. Ai suoi. Ai giovani attivisti ed elettori che gli credono e gli hanno creduto. E non sono pochi, sono molti. I suoi argomenti, compreso un duro attacco alla robotica che sapeva di fantascienza, sebbene temperato dall’idea che l’innovazione tecnologica deve andare avanti compensando coloro che ci perdono socialmente, sono a prima vista inconsistenti. A pensarci bene, sono paccottiglia buona per il canto di Bandiera Rossa, per le ovazioni in piedi ai palestinesi, generico soggetto non già di una questione drammatica irrisolta, ma di progresso e di aggressiva tendenza alla negazione dei diritti all’esistenza di Israele (infatti non si spegne la polemica sull’antisemitismo serpeggiante nell’Old Labour ripristinato). C’è una sola risposta alla domanda di senso che impone questo nuovo senso comune. La mancanza di forza simbolica del mondo globale, anonimo, individualista, anomico, privo di idealità trainanti, da fine della storia, salvo l’eccezione francese in corso di verifica con l’europeismo patriottico e riformatore di Macron, autorizza, come con Trump su un versante opposto, come con la Brexit, come con gli assalti miserevoli alle grandi democrazie superstiti delle piccole armate populiste, la reviviscenza simbolica di un altro secolo, e convince, contro classi dirigenti spesso allo sbando, ad aprire un altro capitolo, che si potrebbe rivelare molto costoso, del grande rifiuto. Sarà festeggiato l’anno prossimo il cinquantenario del 1968, speriamo bene.