Omaggio alla Spagna civil
Si porta molto la Catalunya, ma io no. La libertà, senza stato di diritto, cos’è?
Ora si porta molto la Catalunya. Omaggi, molti omaggi. Una rivoluzione alla Concita De Gregorio, con il cerchietto e tutto. Qualche rivolo di sangue, parecchi feriti, folle che riempiono piazze, star system che si mobilita e piange, anche con il Barça a porte chiuse nel Camp Nou, e molta, molta commozione per i Mossos d’Esquadra neutrali, per la cattiva Guardia Civil, di memoria franchista, che sequestra urne elettorali e cerca di impedire un referendum chiaramente illegale a norma di legge e Costituzione, il cui scopo apparente è l’indipendenza statale della regione catalana. Protagonista il popolo, che non si è mai saputo che cosa sia. Protagonista il popolo fotografato, radunato, che grida e fa resistenza pacifica, vuole la libertà, che al di fuori dello stato di diritto non si è mai capito che cosa sia, e si lascia guidare da un partito di potere che sulla indipendenza nazionale scommette il suo destino, contro la legge e, ripeto, la Costituzione. Quella spagnola, l’unica in vigore per i fratelli e le sorelle catalani e per tutti gli altri dall’Andalusia alla Castiglia alle Asturie, perfino al Paese Basco, eccetera. Quella che ha tirato fuori la Spagna dal franchismo, dal nazional-cattolicesimo clericale, che l’ha portata in Europa, che le ha permesso di affrontare crisi tremende e di risorgere, anche e sopra tutto con l’apporto della Catalogna e di Barcellona, città mitica dei catalani, degli spagnoli e di noi tutti.
Città che appunto si porta. Per via di terroristi e turisti, direbbe Roberto Calasso, che percorrono le Ramblas e le Avenidas sotto la sorveglianza della bellezza mediterranea e del nordismo alla catalana, un luogo magico dove si mangia alle undici di sera e si gode la vita insieme con il lavoro. E io Barcellona la porto nel cuore, Don Chisciotte vi fu sconfitto, il Barrio Chino è o era un quartiere popolare bello come la Sanità, ma fa niente per Don Chisciotte, Barcellona anche se risanata e riempita di Erasmus è pur sempre una città del valore di Napoli, Palermo, per non dire Genova o Marsiglia. Ma non porto nel cuore la rivolta. Sto con Marias e con Savater, che non ritengono autorizzata la voglia di un territorio di essere stato, comunità di cittadinanza, così, alla garibaldina, senza un serio e profondo negoziato, argomenti capaci di convincere in democrazia, e il voto viene dopo e non è un’arma contro lo stato centrale e contro lo stato di diritto, o non dovrebbe esserlo.
Quando la politica cede il campo alla repressione dell’illegalità, magari un’illegalità nutrita di idealismo, di insopportazione sociale diffusa, di ragioni anche buone, è una sconfitta per tutti, d’accordo. Era stata una sconfitta anche il cedimento all’autonomismo spinto, prodromo inevitabile di tutto il resto. Bisogna andarci piano. Non esistono i veneti, è un dogma. D’altra parte qualcuno che faccia rispettare il senso dello stato, la centralità non dell’amministrazione castigliana ma del concetto stesso, universalistico e incomprimibile in ansie territoriali, di cittadinanza, ci vuole.
Ci si è trovato Mariano Rajoy, un premier popular debole per tante ragioni politiche, uno che effettivamente è stato nel giro di Manuel Fraga Iribarne, tra gli ultimi ministri del franchismo, un ministro tra quelli che hanno reso possibile la pacifica transizione alla democrazia spagnola, insieme con gli Adolfo Suárez e molti altri. E quella transizione fu un prodigio, perché per molto tempo gli iberici sono riusciti a non riprodurre la dinamica fascismo-antifascismo che tanti danni cerebrali ha fatto a un paese come l’Italia, per esempio, dove ancora si trovano le tracce del demenziale e del futile che ha accompagnato l’ideologia antifa, accanto alle memorie che sono sacre.
Ma gli spagnoli scelsero perfino l’oblio come balsamo e sanatoria, anche perché milioni di morti avevano segnato una spaventosa guerra civile, e alla fine il franchismo aveva tenuto la Spagna fuori della Seconda guerra mondiale, un miracolo politico di prima grandezza qualunque cosa si pensi del Generalissimo e della sua miserabile, per altri versi, mediocrità storica. La Spagna ha oscillato, ha ballato le estati della sua democrazia passando dalla socialdemocrazia intelligente di González alla dittatura della maggioranza ciudadana di Zapatero, ha preso tutte le curve possibili del costume e del modo di vita legato alle movidas, ma è sempre rimasta una e impareggiabile. Dividerla contro la legge è una cosa che si porta perché fa portfolio, fa giustizia della decenza razionale, eccita e offre mirabolanti soluzioni uneuropean, così importanti per tanti marrazzoni del momento. Ma qualcuno non la porta, questa divisione, un bel po’ di conservatori e di progressisti in giro per l’Europa, per esempio io. E non sono solo, nemmeno in Catalogna.
L'editoriale dell'elefantino