La bruttezza ultramoderna del Mandalay Hotel di Las Vegas, simbolo dell'orrore
Dove, ogni anno, si tiene il Consumer Electronic Show, una superfiera tech
Roma. Forse la bellezza non salverà il mondo, ma la bruttezza non ha mai portato niente di buono. E’ uno dei posti più orridi del mondo il Mandalay Hotel di Las Vegas, l’hotel americano da cui il pazzo pistolero ha causato la strage dell’altro ieri. Bruttezza tecnologica, il Mandalay ospita infatti soprattutto le più fondamentali fiere americane, e in particolare il “CES”, il Consumer Electronic Show che si tiene ogni anno ai primi di gennaio nella capitale del Nevada. Lì ogni anno, nel suo centro congressi separato dal torrione, vengono presentati gli ultimi ritrovati tecnologici, dai computer ai telefoni (tranne i fighetti di Apple che li presentano da sempre, come i grandi stilisti, “in casa”, a San Francisco e oggi addirittura nel nuovo teatro di Cupertino nel mega campus aziendale). Lì si era stati l’anno scorso per l’ultima edizione, trovandoci di fronte a una specie di grande salone dell’auto di Ginevra, con alcune similitudini; la vicinanza (anzi contiguità) con l’aeroporto, e soprattutto ormai la monocultura automobilistica dei luoghi, con cambiamento di fauna e utenza, ecco dunque amministratori delegati di mezza età istruiti certamente da plotoni di coach a imitare liturgie da Steve Jobs senza averne il fisico, a leggere sul gobbo elettronico “e adesso siamo qui a offrirvi il prossimo schermo Oled per la vostra nuova auto elettrica, oh yeah”, mentre platee di dipendenti applaudivano esageratamente tra gli stand come in una gigantesca concessionaria d’auto (e un concorso per il drone più carino di tutti, sempre qui in questi saloni enormi e angosciosi).
Il Mandalay ospitava negli sterminati volumi del suo convention centre solo una parte di questo “Ces”, ed era tutto un accorrere e darsi appuntamenti in varie zone della città, come a un festival del libro o del cinema o di qualunque cosa, coi ritardi e i badge pencolanti, perché nel frattempo il salone tecnologico è diventato sempre più grande (184.000 spettatori l’anno scorso). Però l’arredo e la cubatura e il mood di queste strutture fan provare quasi simpatia per il killer. Ispireranno se non stragi, molti mali di vivere. Non per giustificarlo, ma gli ettari di moquette impolverata, e i corrimano ottonati forse avranno avuto il loro effetto. Anche tutto un rincorrersi per sale varie, piccole e grandi, con audio che non funzionano, e fili con lo scotch, come in un grande Ergife per un concorso per vigili urbani o metronotte invece che la suprema vetrina della supremazia tecnologica mondiale.
E poi fuori la vista da Corea del nord: grandi finestre sul nulla, sulle montagne rocciose vicine, sul torrione a L della strage, gli altri hotel, il Delano e il Trump con idendica forma a accendino Cartier, dorato, sottile, rettangolare. La Trump Tower poco distante si dice che sia ricoperta d’oro, ma naturalmente è una balla (è patetico ottone). E avrà sospirato, il presidente: per fortuna non in casa mia (i prezzi sono tutti uguali, nella fascia da 100 dollari al giorno di questi hotel di lusso triste e appannato). Un po’ più in là la strip, con la sua torre Eiffel e la finta Venezia e il Bellagio e il Caesar Palace con le sue moquette a gigli borbonici e girali d’acanto (però dall’aria meno impolverata) coi concerti tutto l’anno di star stagionate qui in continua replica esistenziale (Elton John-Céline Dion-Rod Steward, e Britney Spears che fa tutto in playback). E i franchising dei grandi cuochi stellati nelle arie condizionate. Chissà cosa deve aver passato, il killer, prima della strage (davvero, non per giustificarlo).
Intanto, al Ces non fanno una piega, dalla fiera fan sapere che “noi tutti aspettiamo di sapere se la nostra famiglia è al sicuro, e le nostre preghiere e i nostri cuori sono con Las Vegas”, ha scritto il presidente della Consumer Elecronic Association Gary Shapiro, con parole comunque meglio di quelle di Trump, ma sottintendendo che the show must go on, e ci si rivede dal 9 al 12 gennaio, giusto il tempo di riparare un paio di finestre, dorate.
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