La strage di Las Vegas mette alla prova la leadership di Trump
Dopo tante crisi autoinflitte, il presidente si trova stretto fra cataclismi e atti di inspiegabile malvagità
New York. Dopo le condoglianze per le vittime di Las Vegas, Donald Trump ha passato quasi un’intera giornata senza twittare. Quando è riemerso sul social lo ha fatto con un messaggio di generico orgoglio patrio: “Sono così fiero del nostro grande paese. Dio benedica l’America!”. Si è tenuto alla larga dalle polemiche politiche, ha detto “parleremo più avanti delle armi da fuoco” a chi voleva trascinarlo sullo scivoloso terreno del “gun control” anche alla partenza per Puerto Rico, è rimasto composto di fronte a una circostanza che richiede al presidente innanzitutto di agire come consolatore della nazione.
Esiste – purtroppo – un protocollo di condotta presidenziale dopo un “mass shooting” che parte dal lutto e dall’unità nazionale e arriva fino all’azione politica passando per l’esibizione di vicinanza, anche fisica, alle famiglie e alle comunità colpite. E’ un processo codificato, ma Trump è specialista nel violare i codici: a Houston è riuscito a vantarsi dell’operato del governo prima ancora di ricordare le vittime, ha litigato con il sindaco di San Juan a emergenza ancora in corso, in passato ha strumentalizzato senza indugi tragedie di varia natura per mettere a segno qualche punto politico. “C’è una differenza fra essere presidenti ed essere candidati”, ha detto la portavoce della Casa Bianca a chi chiedeva conto della diversa reazione di Trump davanti alla strage di domenica sera e a quella di Orlando dello scorso anno. Ma quante volte in questi mesi la distanza fra presidente e candidato è stata tranquillamente annullata?
Il massacro di Las Vegas è un esame di leadership cruciale per Trump, forse il più importante da quando si è insediato alla Casa Bianca, e arriva in rapida successione con gli uragani che hanno flagellato il sud degli Stati Uniti. E’ stretto fra quello che nel linguaggio delle assicurazioni è un “act of God” e un “act of pure evil” commesso da un sessantaquattrenne motivato da chissà cosa, un profilo per il momento inassimilabile a tutte le mortifere cause con cui l’America e l’occidente hanno un rapporto di tragica familiarità. Ieri Trump lo ha definito un “pazzo” e un “malato”. La maggior parte delle crisi che ha dovuto affrontare finora è autoinflitta, la loro origine è politica, il modus operandi pasticcione è spesso la causa remota del problema. In questa fase invece Trump è assalito da realtà al di fuori del suo controllo, e sulla risposta a queste minacce si misura la sua capacità di riciclarsi come “presidenziale” dopo tante, istrioniche esibizioni di dilettantismo. Nel discorso alla nazione di lunedì mattina, pronunciato nella Diplomatic Room sotto lo sguardo severo di George Washington, Trump ha parlato forse per la prima volta con la gravitas che è propria del presidente americano, ha pianto i morti e richiamato all’unità, evitando qualunque sbavatura. Oggi sarà a Las Vegas per portare lo stesso messaggio alle vittime, ai loro famigliari e all’intero paese, ché in quella folla finita sotto il fuoco devastante e scriteriato (il marchingegno che ha utilizzato per sparare colpi a raffica, trasformando di fatto fucili semiautomatici in mitragliatrici, diminuisce la precisione) poteva esserci chiunque. Al termine della visita si chiuderà presumibilmente lo spazio del dolore e della compassione e il dibattito sarà invaso dall’eterna questione del “gun control”, tirata fuori dai progressisti già a pochi minuti dalla strage. Vent’anni fa Trump era a favore della limitazione di certe armi da fuoco, ma con la corsa alla presidenza s’è dovuto presentare come uno strenuo difensore del Secondo emendamento. Secondo Steve Bannon, un cambio di rotta è “impossibile: sarebbe la fine di tutto”. Di certo sarà un test per la sua fragile leadership.