Il premio che premiò se stesso
Il Nobel per la Pace a Ican, l’organizzazione-acronimo vagamente obamiana che vuole un mondo senza armi atomiche. E chi non lo vorrebbe? Ma non si può, e la minaccia invece è una cosa seria
Ha mai visto il Dottor Stranamore, il film di Kubrick? No, non l’ho mai visto. La risposta disarmante, verrebbe da dire, dell’uomo che ha il dito su più o meno metà dell’arsenale atomico mondiale vale un premio, ed è andata in onda, quasi serendipity, giovedì sera su Raitre: la fluviale intervista di Oliver Stone a Vladimir Putin. Se volevano lanciare uno StopTheBomb bello da farci un hashtag, avrebbero dovuto assegnarlo a lui, a Putin, il Nobel per la Pace. Per l’esibita inconsapevolezza del problema, che è già la soluzione: “Come ho imparato a non guardare i film e a non avere paura”. Anshel Pfeffer, che è un giornalista serio, ha scritto su Haaretz che quest’anno “il Nobel è una ironica nota a piè di pagina al periodo di Obama e alla crescente irrilevanza del premio”.
Un premio nato in nome dell’inventore della dinamite e che quest’anno è giunto al picco della tautologia: il premio assegnato al suo stesso nome: pace alla pace. Cioè all’Ican, l’organizzazione no profit che “più di ogni altro ha dato un contributo enorme e un nuovo vigore al progetto di un mondo senza armi nucleari”. Un mondo senza armi atomiche. Qualcuno è contrario? Tanto valeva attribuirlo all’autore del verso immortale “how many times must the cannoneballs fly”. Almeno, per praticità, sapevano già che non passerà a ritirarlo. Il prossimo anno, potrebbero assegnarlo direttamente all’Idea Platonica della pace. O alla prima bambina che nascerà nel 2018 che verrà chiamata Irene. L’idea borgesiana dell’inutilità dei segni che riproducono il mondo così com’è, senza possibilità di cambiarlo. Certo, non è un bel periodo per il Nobel. Ad Aung San Suu Kyi lo vogliono revocare. Nel 2013 lo diedero all’organizzazione che si occupa di proibire le armi chimiche, e chiedete in Siria com’è andata. Tanto valeva andare sul sicuro, premiare un co-working di buone intenzioni che non potendo fare, male non fa.
Non vorremmo aver l’aria dei ciniconi – non tanto almeno come il chief della Nato, Jens Stoltenberg, che ha subito spiegato che l’Alleanza “rimarrà un’alleanza nucleare”, criticando il Nuclear Ban Treaty cui lavorano quelli di Ican. Perciò rimandiamo al bel dossier che c’era ieri nell’inserto Idées del Monde, intitolato “Apocalypse now”, ovvero a quanto sia vicina la minaccia atomica, e quanto allo stesso tempo sia tremendamente lontana dalla percezione che ne abbiamo. Lo “spettro della guerra atomica” è attualissimo, ma “lo spirito umano fa fatica a farsene un’idea”. La dottrina dell’annullamento reciproco data del 1960, ha retto quasi sessant’anni e il tabù dell’inverno nucleare ha sigillato le nostre menti, da Kubrick a Godzilla. Ma ora, scrive Barthélemy Courmont, è stupefacente come oggi quell’arma, fino a ieri definita “suprema”, quasi fosse un titolo di merito, è precipitata come una normale possibilità.
“E la banalizzazione è il cammino che può condurre alla fine del tabù”. Per gli specialisti il rischio non è mai stato così grande dal 1980. La sottostima ha due origini: la minaccia è così grande da non essere credibile; ci fidiamo ciecamente della dissuasione. Robert McNamara raccontò che l’umanità era passata, a sua insaputa, 20 o 30 volte a un pelo dall’apocalisse. Non crediamo più manco a questo. Ma che a risvegliare le coscienze e a chiudere come un rubinetto che gocciola gli arsenali basti premiare un acronimo iconico e banalmente obamiano, Ican, anche no.