Perché il Regno Unito non sa dotarsi di un partito anti Brexit
In Gran Bretagna il bipartismo è saldo. Ma se si guardano da vicino Labour e Tory si scopre che in realtà non sono due partiti: sono quattro
Milano. All’ultima tornata elettorale nel Regno Unito, il Labour e i Tory hanno aumentato la loro quota di voti complessiva: l’82 per cento degli elettori ha votato per i due più grandi partiti del paese, contro il 65 del 2005, scrive l’Economist. Nessuna frammentazione dunque, il bipartismo è saldo. Ma se si guardano da vicino Labour e Tory si scopre che in realtà non sono due partiti: sono quattro. Le conferenze annuali che si sono tenute nelle ultime due settimane – prima a Brighton per il Labour poi a Manchester, nei giorni scorsi, per i Tory – hanno raccontato in modo esatto questa divisione. Nel Labour ci sono due anime che non possono nemmeno più essere definite correnti: sono due mondi a parte. L’ala più radicale, che fa capo al leader Jeremy Corbyn, detiene il controllo del Labour: nazionalizzazione e socialismo sono i termini più in voga per descrivere il partito oggi. Momentum, il gruppo di attivisti che ha costruito e protetto la leadership di Corbyn, è l’oggetto politico più studiato e copiato del momento: i conservatori non lo dicono apertamente, perché rincorrere i rivali non è mai una bella cosa da ammettere, ma stanno facendo di tutto per costruire un movimento “grassroot” a immagine e somiglianza di Momentum. I sindacati non si sono mai sentiti così potenti: il capo di Unite, il più influente tra i sindacati, il sempiterno Len McCluskey, si è intestato una battaglia che pare surreale, ma che è molto popolare: abbiamo vinto le elezioni di giugno. Non è vero, hanno vinto i Tory, pur se ammaccati, ma McCluskey insiste: “Abbiamo vinto. Abbiamo vinto i cuori e le mente di milioni di persone, soprattutto tra i giovani”, e questo basta per proiettarsi nell’immaginario come il governo che presto verrà, alla prima occasione. C’è un gruppo di lavoro, tra i corbyniani, che si occupa soltanto di crearla, questa occasione, magari entro la fine del 2018.
L’altra metà del cielo laburista, in minoranza, è quella moderata, o socialdemocratica, o blairiana, come dir si voglia. A Brighton non era rappresentata in forze – non ha parlato nemmeno il sindaco di Londra, Sadiq Khan, che una volta era considerato un radicale ma di fronte ai corbyniani è tornato a essere classificato tra i moderati – ma ha cercato di farsi sentire: ribadendo che no, il Labour non ha vinto le elezioni e avrebbe potuto farlo vista la debolezza del premier conservatore, Theresa May, e lamentandosi. Non siamo ascoltati, non siamo visibili, siamo boicottati: chi una volta distribuiva volantini rivoluzionari fuori dalla conferenza ora ha un posto dentro, e gli altri sono esclusi. Ci sentiamo stranieri nel nostro stesso partito, hanno ribadito molti di questa ridotta liberale sopravvive a stento nel Labour corbyniano.
Per i Tory il discorso è simile, pure se il tasso di litigiosità è molto più visibile: un unico partito con due anime inconciliabili, polarizzate per lo più dalla questione Brexit e da un approccio diverso alle politiche liberali. L’ala più cosmopolita ed europeista è rappresentata dai cosiddetti “cameroniani”, dall’ex premier David Cameron, anche se non amano essere definiti così, per ovvie ragioni. Sono liberali, attenti al rigore, sostenitori di una Brexit leggera e di un negoziato conciliante con Bruxelles. L’altra ala è quella dei brexiteers più falchi, decisi a ottenere un’uscita dall’Ue netta e senza rimpianti, divisi al loro interno tra chi spinge per un liberalismo più aggressivo e chi ha un approccio più “compassionevole”. Theresa May è in mezzo, e come si sa non ci sta comoda.
Di quattro partiti però non se ne fa uno nuovo. E sì che la Brexit sarebbe un collante eccezionale: a lungo si è parlato della costruzione di un movimento del “48 per cento”, dalla percentuale ottenuta al referendum del 2016 dagli anti Brexit, trasversale, liberale, attento all’interesse nazionale ma anche a non spezzare i legami con il continente. Nonostante gli sforzi, la complicità dei media e di alcuni donors, questo partito non è nato. Troppe rivalità, nessun leader condiviso. Nick Clegg, ex leader dei liberaldemocratici, a lungo ha tentato di sfruttare una convergenza, ma nel libro che uscirà la settimana prossima, “How to stop Brexit”, scrive: i due grandi partiti sono di estrema rilevanza “in questa situazione di emergenza”. “Buttatevi”, ed entrate nel Labour per far pressione a Corbyn e fermare la Brexit. O se proprio non ce la fate, entrate nei Tory, e fate pressione sulla May e sui falchi della Brexit. Fuori di lì non c’è più margine di manovra.
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